Sono settimane frenetiche e ansiogene quelle che il settore dell’imprenditoria balneare si trova a vivere. Dopo la scelta della proroga dei termini contenuti nella legge n. 118/2022 (detta “legge sulla concorrenza”) a mezzo dell’articolo 10-quater, comma 3, del decreto legge n. 198/2022 (detto “decreto milleproroghe”, convertito in legge n. 14/2023) e le conseguenze di simile scelta – non ultima, la sentenza n. 2192/2023 della VI sezione del Consiglio di Stato – le vicissitudini delle concessioni demaniali marittime non accennano ad acquietarsi. Lasciando in secondo piano il contraddittorio politico in corso e le relative considerazioni, il momento sembra ancora buono per condividere una riflessione magari non brevissima e pur sempre attuale, in un contesto nel quale il silenzio del legislatore lascia ancora spazio a suggestioni di ordine tecnico-giuridico non ancora superate dagli eventi. E tuttavia, nelle more del lavoro che il governo dovrebbe portare avanti (ben oltre la mera ricognizione delle spiagge in concessione e delle spiagge concessionabili), fra le righe del dibattito istituzionale è dato al giurista di cogliere l’esistenza di un duplice ordine di visioni: la prima è quella che si affida alla ricerca di soluzioni all’interno dei meccanismi che si leggono nella delega contenuta nella legge n. 118/2022 (i cui termini di delega del potere legislativo sono stati allungati di cinque mesi con la legge n. 14/2023, all’articolo 1, comma 8, lettera a); la seconda è quella che apre alla ricerca di soluzioni più o meno innovative, da affiancare “esternamente”, pur coerentemente, al percorso che – al momento – resta tracciato dalla legge sulla concorrenza.
Sebbene non sia dato prevedere, a chi scrive, quale sia lo sviluppo di questo dibattito – lasciando alla politica il proprio compito –, da un punto di vista giuridico è ancora possibile ragionare sulle opzioni che – astrattamente, ma non troppo – potrebbero essere oggetto di approfondimento e riflessione. Di certo c’è che, mentre se ne parla, il governo ha avviato un tavolo interministeriale deputato a occuparsi di un censimento delle concessioni: in particolare, l’articolo 10-quater comma 2, ha chiaramente stabilito che è proprio il tavolo a dover concludere la ricognizione con un giudizio di “scarsità” o meno della risorsa “costa marittima concessionabile”, indicando che la dimensione di questa valutazione si dovrà esprimere non su base comunale bensì su base nazionale e regionale (con la conseguenza che le tante inchieste giornalistiche sulla percentuale di occupazione dei litorali dei singoli comuni non hanno alcuna rilevanza in questa dimensione). Si tratta di un lavoro da osservare con attenzione, poiché l’argomento “scarsità” è sempre stato sollevato come un limite alla concorrenza laddove si dimostrasse che ci sono litorali non concessionati ma concessionabili; e si tratta di un argomento atecnico, che nulla ha a che vedere col diritto positivo, giacché l’articolo 12 della direttiva Bolkestein impone la pubblica evidenza nel caso in cui vi sia scarsità naturale o limitatezza del titolo, e le concessioni, già per natura giuridica, non sono autorizzazioni (la cui iniziativa è pianamente rimessa al mercato) bensì atti rilasciati dalla pubblica amministrazione sulla base di un preciso e stringente iter, che ha come presupposto l’individuazione del numero dei metri quadri concessionabili. Ciò detto, è ora di iniziare una riflessione verso i possibili lidi di questa epopea apparentemente infinita.
Il quadro di riferimento vigente oggi sulle concessioni balneari
Il quadro di partenza è, ormai, noto e assodato: nel panorama generale di vigenza nazionale del Codice della navigazione del 1942 – trasformato negli anni da episodici interventi normativi settoriali che avevano riguardato proprio l’istituto giuridico della concessione demaniale marittima, fra diritto di prelazione, diritto di insistenza e rinnovi automatici – si è insinuata la direttiva 2006/123/CE “Bolkestein”, una norma europea che non parla nello specifico delle concessioni demaniali, ma che tuttavia interessa il fenomeno concessorio nella misura in cui esso può avere effetti sulle regole del mercato e della concorrenza (libertà di stabilimento, libertà di intrapresa, non discriminazione, eccetera). Tale direttiva, come noto, ha formalizzato un elemento fondamentale del diritto della concorrenza, allo scopo di consolidare il radicamento dei principi di libertà di stabilimento, di parità di trattamento e di non discriminazione dell’iniziativa economica nei (e fra i) paesi europei e nel preciso scopo di assicurare la libera circolazione dei servizi (articolo 1), invero già assodati in forza dei costanti arresti giurisprudenziali della Corte di giustizia europea e del tribunale di primo grado.
Senza voler divagare, bensì piuttosto mantenendo un intenzionale focus solo sul fenomeno concessorio, è stato l’articolo 12 ad avere gettato non poche ombre su quella che era la normativa nazionale italiana vigente al tempo. Il filo logico-giuridico della norma è decisamente chiaro: siccome la concorrenza costituisce un pilastro fondamentale nella costruzione di quel mercato unico europeo – realizzazione concreta della storica e fondata volontà di scongiurare che le ragioni dell’economia, dell’accesso alle risorse e dello sviluppo della ricchezza dei popoli europei potessero essere un elemento di conflitto, come lo furono nel primo quarantennio del Novecento –, laddove esiste un sistema di governance per il quale siano previste autorizzazioni di ordine amministrativo – comunque formalmente esse siano denominate – che siano limitate o per il numero esistente o, per natura del bene, dalla scarsità delle risorse o dalle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri sono chiamati ad applicare procedure selettive fra i candidati, assicurando imparzialità e trasparenza e garantendo un’adeguata pubblicità dell’avvio, dello svolgimento e della conclusione delle relative procedure.
L’arrivo di una simile previsione – tanto breve quanto decisiva – non costituì a suo tempo (nel 2006) del tutto una novità per i giuristi, ai quali il principio era già noto, pur in precipitati giurisprudenziali nazionali e comunitari di oscillante intensità, tuttavia non generalizzanti ancorché volti a dirimere controversie concrete poste all’attenzione dei giudici. In concreto, però, è stata proprio questa norma a motivare – nelle plurime procedure di infrazione aperte dalla Commissione Ue contro l’Italia (e, recentemente, anche contro il Portogallo e tenendo sotto i riflettori pure la Spagna) – la fine del cosiddetto “diritto di insistenza” e del meccanismo dei rinnovi automatici (introdotto nel 2001), mentre i meccanismi di prelazione erano stati oggetto di attenzione da parte del sistema giuridico eurounitario in ambiti eterogenei (quali, per esempio, i project financing), determinandosi anche per essi la fine o, comunque, una profonda rivisitazione (sull’ammissibilità della quale, invero, tuttora si dibatte). E se taluni si erano affrettati a definire il panorama risultante dall’applicazione della direttiva n. 2006/123/CE come un “vuoto normativo”, l’effetto realmente prodottosi è stato quello di un innesto giuridico del diritto comunitario nel diritto nazionale, pur essendo chiaro sin dall’inizio che la generica indicazione dell’articolo 12 agli Stati membri di munirsi di procedure selettive idonee costituiva, nella vicenda italiana, un quid novum cui bisognava dare una forma e una sostanza.
Per lunghissimo tempo, a tale necessità il legislatore ha risposto con un variegato numero di provvedimenti normativi, tutti accomunati dall’effetto di proroga (o “estensione”, nelle sue più fantasiose interpretazioni volte a sottrarre l’effetto dall’attenzione dei giudici che severamente nel tempo hanno censurato simile soluzione) della durata delle concessioni esistenti, sotto la reiterata motivazione di abbisognare di tempo talora per una riforma del sistema del demanio marittimo, talaltra – quantomeno all’inizio – solo per definire i dettagli l’attuazione della normativa comunitaria (pianamente – e con letterale traduzione – recepita con il decreto legislativo n. 59/2010, in attuazione della delega contenuta all’articolo 41 della “legge comunitaria 2008”, n. 88/2009). Frattanto il potere giudiziario – praticamente in tutti i suoi vari livelli e settori – ha parallelamente (e progressivamente) cumulato le occasioni di produzione giurisprudenziale in tema, non senza dibattiti e chiari scontri che, tutt’oggi, si consumano sull’argomento.
È in questo quadro che si è giunti, così, alle cosiddette “sentenze gemelle” del Consiglio di Stato (la n. 17 e la n. 18) del 9 novembre 2021, sugli esiti delle quali non è necessario soffermarsi, essendo ben note a tutti le conclusioni della sede nomofilattica amministrativa. Ed è successivamente a queste due sentenze che il legislatore si è determinato a intraprendere un iter legislativo pertinente, racchiuso nella definizione di quelle norme di riforma e innovazione del mercato, a scopo di tutela e promozione della concorrenza nonché delle libertà di prestazione dei servizi e di stabilimento delle imprese – in pari condizioni fra i Paesi membri – racchiuso nella legge n. 118/2022. Come si accennava, la legge di attuazione nazionale delle misure comunitarie intervenute nell’anno 2021 in tema di concorrenza ha scelto di non esaurire il quadro normativo di adempimento agli obblighi di rispetto dell’articolo 12 della direttiva n. 123/2006/CE, bensì ha disegnato una cornice generale di meccanismi, argomenti, principi e tempi dentro la quale il governo era stato delegato a definire dettagliatamente gli elementi necessari a dare concreta applicazione alle indicazioni eurounitarie e del parlamento nazionale. La scelta, invero, non stupisce se si pensa al solco della tradizione di produzione normativa che negli ultimi trent’anni ha visto crescere la prassi delle deleghe al governo in ordine a necessità legislative permeate da un livello di tecnicismo decisamente più elevato di quello cui il massimo organo legislativo è solito far uso.
La risposta dentro la delega – de iure condito
Orbene, è da qui che hanno preso vita le due visioni cui si faceva cenno all’inizio. Tralasciata per ragioni di pertinenza quella che vorrebbe portare all’esclusione delle concessioni demaniali marittime dall’applicazione dell’articolo 12 della direttiva Bolkestein – e che, a quadro normativo vigente, resta una prospettiva nelle mani della politica, più che degli operatori del diritto, perché invoca una nuova legislazione (comunitaria e, conseguentemente, nazionale) in materia –, la prima delle posizioni segnalate supra è quella che mira a individuare le “parti molli” del rigido sistema di concorrenza, per contenere dall’interno quelli che sono gli effetti negativi dell’attuazione della norma su un sistema imprenditoriale che – come ripetutamente si dice – conta decine di migliaia di imprese (prevalentemente familiari, di piccola e media dimensione) e centinaia di migliaia di addetti, oltre a un indotto notoriamente consistente di servizi e lavori. È così, dunque, che andrebbero lette le indicazioni della normativa quadro della legge n. 118/2022, laddove aveva parlato, nell’ordine:
- di “procedure selettive” e non di “procedure competitive” (quindi, più centrate sugli aspetti qualitativi-soggettivi che su quelli oggettivi della prestazione);
- di prevedere un favor espresso per la partecipazione delle piccole e medie imprese;
- di valorizzare le esperienze professionali acquisite nell’attività oggetto di concessione;
- di valorizzare la posizione di coloro che negli ultimi cinque anni antecedenti la data di avvio della procedura abbiano utilizzato l’attività connessa alla concessione quale fonte di reddito prevalente;
- di assegnare un indennizzo al concessionario uscente a carico di quello entrante;
- di rivedere la vetusta disciplina delle conseguenze di fine concessione, contenuta nell’articolo 49 del Codice della navigazione;
- di restringere (o anche eliminare) il meccanismo oggi generalizzato dei subingressi ex articolo 45- bis del Codice della navigazione.
A quadro normativo vigente, dunque, il destino del sistema concessorio appare chiaramente segnato dall’arrivo di procedure selettive, i cui contorni sono ancora in attesa di essere definiti. Di certo c’è che questa impostazione mette al centro l’essenzialità della concorrenza e della promozione del confronto competitivo imprenditoriale, lasciando in secondo piano (pur senza dimenticarli) argomenti quali il destino dell’impresa preesistente (apparentemente affidato solo all’indennizzo), la qualità dei sistemi di accoglienza turistica, il rapporto con la valorizzazione del bene pubblico e l’accrescimento del suo valore. Sullo sfondo di questa posizione, tuttavia, resta da segnalare che l’odierna lunga attesa costringe sia i titolari di concessioni che i giuristi a non poche e inaspettate intraprese: si pensi, per esempio, alla contrattualistica in materia di servizi e forniture periodiche in outsourcing per le aziende balneari (in merito alla quale è all’ordine del giorno il tema della durata dei contratti, in quanto sottostanti a quello principale dell’azienda) o, ancora, alla necessità di clausole contrattuali specifiche per quei negozi preliminari (o anche definitivi) in cui compratore e venditore provino a formalizzare il reciproco consenso per la cessione di quote sociali (o per la cessione di proprietà immobiliari superficiarie) di titolarità di concessionari del demanio marittimo (per cui si rendono necessarie precise e dettagliate clausole sospensive o risolutive che seguano lo svolgersi degli eventi o, in ogni caso, gli scenari possibili). Ma è altrettanto chiaro che – fuori da ogni giudizio di valore e riferendo unicamente di un dato tecnico-giuridico – l’attuazione della delega, nel quadro attuale, appare come la soluzione naturale e automatica, che richiede come unico sforzo l’attenzione al rispetto dei confini della delega e la produzione di un quadro normativo attuativo chiaro e pratico, con il quale chiudere il cerchio delle decennali vicende di cui ci si occupa.
La risposta a fianco della delega – de iure condendo
La seconda delle posizioni in campo è quella che, nella consapevolezza che l’impianto normativo della legge n. 118/2022 resta sostanzialmente intoccabile (in ragione della sua profonda connessione con gli impegni sovranazionali assunti dal nostro paese nell’ambito della definizione delle misure di innovazione e riforma che il sistema di aiuti comunitari – espresso, nel caso italiano, dal Piano nazionale di ripresa e resilienza – che riguardano anche e soprattutto il settore della concorrenza e, dunque, anche la vicenda dei concessionari demaniali marittimi) e che la sua attuazione resta essenziale a che le istituzioni nazionali diano compiuta esecuzione agli impegni contratti in sede europea, cerca però di coniugare questo percorso con misure ulteriori che non si troverebbero entro i confini della legge n. 118/2022, bensì esternamente ad essa, pur non potendosi alimentare di certo meccanismi di antinomia. Lo spirito di questa posizione appare volto alla ricerca di un equilibrio fra le ragioni della concorrenza, la valorizzazione dei beni pubblici e la promozione dell’innovazione nel sistema imprenditoriale nazionale, in un complesso puzzle giuridico di incastri che richiedono una più profonda analisi del sistema normativo vigente a livello nazionale e della sua compatibilità (attuale o da raggiungere) con la spinta verso la concorrenza incondizionata.
Il fondamento giuridico starebbe nella lettera m) del comma 2 contenuto nell’articolo 4 della legge n. 118/2022, che delega il governo, fra le varie, alla «revisione della disciplina del Codice della navigazione al fine di adeguarne il contenuto ai criteri previsti dal presente articolo», il quale ultimo è, appunto, la norma-quadro per la disciplina che il governo è chiamato a emettere. La riforma del Codice della navigazione potrebbe preludere a un più generale momento di riorganizzazione normativa del settore, a partire dalla disciplina codicistica, ma non fermandosi soltanto a quella. All’esterno del perimetro della legge n. 118/2022 già esiste – non da poco tempo – la previsione di cui al decreto legge n. 400/1993 (convertito, con modifiche, dalla legge n. 494/1993), recante “disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime”, il cui articolo 3, comma 4-bis, riferendosi alle concessioni demaniali marittime a uso turistico-ricreativo, dispone che «le concessioni di cui al presente articolo possono avere durata superiore a sei anni e comunque non superiore a venti anni in ragione dell’entità e della rilevanza economica delle opere da realizzare e sulla base dei piani di utilizzazione delle aree del demanio marittimo predisposti dalle Regioni». Tale previsione normativa è tuttora vigente, pur senza mai avere ricevuto pratica attenzione nel settore del demanio turistico-ricreativo (a differenza di quanto avvenuto per il demanio d’uso produttivo, come la cantieristica). Le concessioni demaniali, infatti, di regola erano rilasciate a semplice domanda dell’interessato e previa pubblicazione della domanda sugli albi delle autorità procedenti all’assegnazione; mentre con l’approvazione dell’articolo 3, comma 4-bis sopra citato, è stato creato uno specifico elemento di dettaglio normativo per declinare il concetto di “proficua utilizzazione” del bene demaniale che il pretendente concessionario intende proporre e che lo stesso Codice della navigazione pone alla base dell’assegnazione di beni in concessione (articolo 37, comma 1).
Il radicamento di una previsione normativa che lega la durata delle concessioni a quella dei piani economico-finanziari della concessionaria e, dunque, agli investimenti sul demanio, ha dato vita ad alcune circolari ministeriali e, più recentemente, a normative regionali di attuazione della norma nazionale. In questo secondo frangente di produzione normativa, appare cruciale rammentare le vicende della legge regionale toscana n. 31/2016, che disponeva dell’attuazione del citato comma 4-bis del decreto legge n. 400/1993, oltre a definire un sistema di indennizzi. Tale norma, infatti, è stata oggetto di impugnativa diretta – sotto molteplici profili – presso la Corte costituzionale da parte dell’allora governo; e con sentenza n. 157/2017 la Consulta si è pronunciata, dichiarando sì l’illegittimità del sistema di indennizzi, ma ritenendo espressamente non incompatibile con il già allora vigente sistema europeo di concorrenza della direttiva 123/2006/CE (che il governo aveva invocato a tutela delle proprie ragioni di ricorso) il meccanismo instaurato dal combinato disposto del comma 4-bis e della legge regionale toscana.
Se è vero che il giudicato delle “sentenze gemelle” n. 17 e 18 del 2021 emesse dal Consiglio di Stato è particolarmente articolato e complesso – e che, in una parte di esse, i giudici si sono spinti non solo a giudicare del quadro normativo esistente ma anche a dare indicazioni a uno dei possibili quadri normativi non contrastanti con la legislazione eurounitaria –, è anche vero che questo istituto non ha raccolto nessun tipo di censura, anzi. All’articolo 3, comma 2, della legge n. 118/2022, il legislatore fa salvi dall’obbligo di evidenza pubblica al 31 dicembre 2023 (data originaria di cessazione di tutte le concessioni demaniali) tutti quegli atti rilasciati con adeguata pubblicità (oltre a quelli ulteriormente citati): esso infatti ha stabilito che «le concessioni e i rapporti di cui al comma 1, lettere a) e b), che con atto dell’ente concedente sono individuati come affidati o rinnovati mediante procedura selettiva con adeguate garanzie di imparzialità e di trasparenza e, in particolare, con adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento, continuano ad avere efficacia sino al termine previsto dal relativo titolo e comunque fino al 31 dicembre 2023 se il termine previsto è anteriore a tale data». Si noti bene che la dizione letterale della citata previsione parla di concessioni e rapporti che – previamente individuati dall’ente – sono stati rilasciati con una procedura selettiva che sia stata caratterizzata da adeguata pubblicità; tuttavia, non limita gli effetti della previsione alle sole concessioni o rapporti così innescati prima dell’entrata in vigore della direttiva 123/2006/CE, bensì li estende a quei rapporti che si siano creati prima della scadenza del 31 dicembre 2023 (o altra scadenza, se vi dovessero essere rinvii).
Così stando le cose, il meccanismo di cui all’articolo 4-bis (e per la Toscana, ad esempio, della legge regionale n. 31/2016, affiancata dalla relativa deliberazione di giunta regionale per le cosiddette “linee guida”) consente alle pubbliche amministrazioni di disporre di uno strumento vigente con cui rispondere alle istanze del settore turistico-ricreativo dei balneari: tanto è vero che lo stesso Consiglio di Stato, con la sentenza 11664 del 29 dicembre 2022, ha sancito una marcata distinzione fra procedure selettive e procedure comparative e – nel rispondere alla domanda di annullamento di un provvedimento comunale che, sostanzialmente, negava al ricorrente di accedere a qualsiasi facoltà sul demanio marittimo in ragione della necessità di attendere la normativa di attuazione della legge n. 118/2022 – ha ribadito che, nelle more dell’attesa attuazione della delega governativa, le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di rispondere alle istanze con la normativa in vigore, compatibilmente con i principi generali dell’ordinamento ma senza potersi rifiutare di procedere. In questo senso, le istanze dei concessionari (che tali sono ancora grazie alla qualificazione data dalla legge n. 118/2022 a salvezza delle imprese dall’incertezza in cui li avevano gettati le “sentenze gemelle”, nelle quali pareva scorgersi una condizione “ibrida” degli odierni concessionari quali “occupanti autorizzati” – senza, dunque, essere perseguibili penalmente ma anche senza vantare alcun diritto sostanziale, essendo assimilati di fatto e non di diritto ai concessionari) possono ancora accedere al meccanismo, dovendo le pubbliche amministrazioni procedere a previa deliberazione di indirizzi e a garantire che vi sia pubblicazione dell’avvio del procedimento e dello svolgimento finale delle attività istruttorie, racchiuso nell’esito.
Un ultimo dubbio riguarda le modalità e l’ampiezza della pubblicazione, posto che ciò incide sul concetto di “adeguata pubblicità” che è condizione di salvezza dei relativi titoli dalle “gare” che la delega al governo dovrà trattare. Trattandosi di rapporti in essere, soccorre l’articolo 18 del Regolamento di attuazione ed esecuzione del Codice della navigazione, ancora vigente; e più difficile appare rispondere alla qualificazione del livello di pubblicità necessario, in un quadro abbastanza complesso com’è oggi quello delle pubblicazioni e degli strumenti tecnologici. Di sicuro, ogni passaggio (avvio-svolgimento-esito) dovrà essere visibile sul profilo istituzionale dell’ente procedente, in forza peraltro delle ordinarie orme di legge esistenti (decreto legislativo n. 267/2000, legge n. 241/1990), ma non solo: seguendo l’esegesi interpretativa che, di base, offre l’adunanza plenaria – che qualifica il fenomeno delle concessioni anche sul piano di rilevanza economica –, dovremmo concludere che il livello minimo di pubblicità degli atti debba determinarsi sulla base dei valori economici del piano di investimenti rapportato all’unico criterio che oggi, oggettivamente, si ha a disposizione, ossia quello dei regimi di pubblicità dei contrati pubblici – in cui si lega il regime di evidenza pubblica (oltre che di procedura applicabile) a soglie di valore determinate dall’articolo 35 –, applicando quello previsto per le concessioni. Da simile lettura, tratta in via analogica dal combinato disposto delle norme a disposizione con le indicazioni di Palazzo Spada, se ne desume che il regime di pubblicità (a normativa attuale) non potrebbe essere altro che quello di una pubblicazione in Bollettino ufficiale regionale o, al più, in Gazzetta ufficiale della Repubblica Italiana.
Tale esegesi è utile anche per comprendere quali degli atti sinora rilasciati siano veramente caratterizzati da “adeguata pubblicità” – ossia da quell’attributo giuridico che rende il contenuto dell’atto (e in special modo la sua durata) valido ed efficace, esente dagli obblighi di pubblicità e selezione menzionati negli articoli 3 e 4 della legge n. 118/2022 – e offrire una bussola pratica per gli operatori del diritto, tra i quali i dirigenti della pubblica amministrazione e i loro responsabili d’ufficio o di procedimento. In questa direzione – più articolata e complessa di quella della mera attuazione della delega – permangono alcune ombre. La prima consiste nella necessità di linee guida applicative nazionali, sia riguardo il procedimento che per ciò che concerne la determinazione dei criteri valutativi di determinazione della durata della concessione in funzione dell’investimento promesso – che, come noto, se non attuato in tempi determinati dalla concessione comporta la decadenza dalla concessione stessa. Oggi le linee guida, ove esistono, sono regionali e ciò, per quanto legittimo, finisce col parcellizzare il ricorso allo strumento del comma 4-bis dell’articolo 3 contenuto nel decreto legge n. 400/1993: si renderebbe dunque necessario un mero decreto ministeriale con cui uniformare prassi e indicatori. La seconda ombra sta nella necessità di riformare comunque l’articolo 49 del Codice della navigazione, sia alla luce delle odierne complicazioni di valutazione di ciò che è di facile rimozione e ciò che è di difficile rimozione, sia alla luce di una prospettiva (l’istituto del cosiddetto “incameramento” nella proprietà dello Stato) ormai superata dal tempo e, forse, nemmeno di interesse dello Stato.
A tale proposito va tenuto presente che, a differenza di quel che diffusamente si ritiene, il diritto comunitario è un diritto che affida al diritto amministrativo – prima che al diritto pubblico – la centrale funzione di uniformazione di prassi e visioni applicative, in assenza della quale esso sarebbe nient’altro che un impianto astratto di principi e regole di natura sovranazionale: è, infatti, la cosiddetta “cooperazione amministrativa” (peraltro citata al considerando n. 105 della direttiva europea 123/2006/CE) a scongiurare la genesi di pulviscoli normativi mirati a singoli settori professionali o la proliferazione di incoerenze nei sistemi di controllo delle imprese, tali da minare la leale competizione fra le imprese e, nella dimensione “macro”, la collaborazione fra sistemi economici. Orbene, se si ritenesse che il governo nient’altro avrebbe da fare se non emettere un decreto ministeriale che attiva in modo uniforme la facoltà di proporre istanze di concessione per investimenti, è anche vero che permarrebbe la necessità di coordinare questo quadro normativo esistente con quello venturo, di attuazione della delega contenuta nella legge n. 118/2022. Ci si sente dunque di suggerire un meccanismo che pone i due regimi di pubblicità in coordinamento: l’istanza ex articolo 3 del decreto n. 400/1993 viene istruita e se, successivamente alla pubblicità, pervengono opposizioni da soggetti – che non possono essere soggetti qualsiasi, bensì devono essere qualificati, legittimati e portatori di una posizione giuridica soggettiva pertinente, qualificata e tutelata dall’ordinamento (e ciò a giudizio dell’amministrazione istruttrice) – e queste opposizioni sono fondate nel merito, allora si attiva la procedura disegnata dalla legge 118/2022 (e che sarà stesa dal governo, se mai lo sarà). In via del tutto concettuale, si tratterebbe di un sistema combinato, che peraltro – a differenza della mera attuazione della delega – darebbe la possibilità alle pubbliche amministrazioni di porre un filtro iniziale all’interesse del mercato, che dovrebbe manifestarsi in modo pertinente nelle opposizioni, senza doversi cimentare nelle complesse selezioni a evidenza pubblica in assenza di una reale e specifica manifestazione di interesse del mercato (che arriverebbe, dunque, nella fase delle opposizioni). Si tratterebbe in sostanza di un sistema a “doppio binario”, in cui consentire alle ragioni di concorrenza e mercato di trovare spazio solo laddove essere siano espresse nell’ambito di procedimenti formali che impegnano i concessionari in investimenti, richiedendo al legislatore uno sforzo minimo e in alcun caso contrastante con i principi e le indicazioni della normativa europea in materia.
Conclusioni
I mesi a venire sono cruciali per il sistema istituzionale coinvolto dalla ricerca di una soluzione dell’argomento. Di certo, non si teme smentita nell’affermare che ogni giorno che passa nel vuoto di una soluzione diversa dalla prenotazione di ulteriori tempi è un giorno in più nel quale il lavoro degli interpreti – specie i giudici – trova campo sgombero da riferimenti e, contemporaneamente, deve confrontarsi con casi concreti la cui soluzione coinvolge spesso esercizi di ordine esegetico ai limiti dell’esercizio di quella funzione creativa che sarebbe tipica del potere legislativo (o, comunque, di un potere esecutivo, debitamente e puntualmente delegato). La premura del potere legislativo – per funzione e ragion d’essere – non può riassumersi nell’eterno rinvio di una soluzione, piuttosto apparendo necessario che il tavolo di lavoro lasci ai tecnici lo spazio necessario a verificare le possibili opzioni giuridiche – anche diverse da quelle indicate dal Consiglio di Stato – tra le quali, poi, sarà la politica a scegliere, nell’esercizio di quella funzione di indirizzo e normazione che le è propria nelle istituzioni pubbliche del nostro paese.
Il rischio cui si assiste è quello – forse già in atto – di una collisione sempre meno teorica e sempre più concreta fra ruoli dei pubblici poteri, nei quali i vuoti lasciati dall’uno vengono poi riempiti dall’altro, secondo un consolidato schema nel quale nelle maglie della norma (compresi i suoi vuoti) trova spazio l’interpretazione (attività di crescente importanza che parte dagli operatori del diritto e trova massima estensione e forza nel potere giudiziario). Ma non solo. Se appare ormai certo che le proroghe delle concessioni non sono una soluzione (se mai lo sono state) ma, per ontologica definizione, solo uno slittamento del momento in cui una soluzione dovrebbe arrivare, è certo che il sistema di mercato – anche per gli attuali concessionari – richiede confronti di merito e soluzioni concrete, per chiudere con l’epoca delle incertezze e aprire una fase in cui la tutela dell’impresa esistente non collide con le ragioni della concorrenza. In questo, sarà interessante seguire lo svolgimento del dibattito per comprendere, nel merito giuridico, quale delle due visioni avrà la meglio.
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