Se c’è un obiettivo che mette d’accordo tutti i balneari italiani, è quello di impedire l’esproprio delle proprie aziende, come si sta tentando di fare da anni con la scusa della direttiva Bolkestein. Tuttavia ci sono delle opinioni diverse su come arrivare alla soluzione: alcuni si oppongono a qualsiasi forma di gara delle aree su cui sorgono le imprese, mentre altri sono pronti ad accettare le evidenze pubbliche a patto che la legge preveda alcune forme di tutela per gli investimenti realizzati dagli attuali concessionari, come il riconoscimento economico del valore aziendale in caso di passaggio del titolo. Entrambe le posizioni sono legittime e degne di rispetto; tuttavia, in questa situazione drammatica in cui la nave sta affondando, è fondamentale che le associazioni di categoria trovino una sintesi, se vogliono evitare che il governo agisca per conto suo. Questo abbiamo voluto ribadire nel nostro editoriale di martedì scorso, nonostante qualcuno abbia erroneamente letto tra le righe l’intento di appoggiare esplicitamente le posizioni dell’uno o dell’altro sindacato.
Nel delicato tavolo di lavoro che dovrà definire i contenuti del riordino delle concessioni, occorrerà tenere conto che le spiagge sono sì un bene comune la cui gestione va periodicamente riassegnata tramite delle gare pubbliche – come giustamente prevede il diritto europeo e come nessuno ha mai messo in dubbio, tantomeno i balneari – ma è anche vero che le imprese che vi sono legittimamente sorte sopra sono proprietà private e in quanto tali sono tutelate dal diritto comunitario alla pari del principio di concorrenza di cui politici, burocrati e opinionisti da bar si riempiono tanto la bocca. Inoltre, non si potrà ignorare che gli attuali balneari hanno effettuato degli investimenti sulla base di un contratto con lo Stato poi cambiato da un giorno all’altro senza preavviso, prima quello del rinnovo automatico abrogato nel 2010 e poi quello dell’estensione al 2033 annullata dalla recente sentenza del Consiglio di Stato.
Finora si è riusciti a impedire che le imprese venissero espropriate solo grazie a una serie di proroghe automatiche, determinate anche dall’incapacità della politica di decidere su una materia così complessa, e il prezzo da pagare per questi continui rinvii è stato purtroppo l’incacrenirsi di una situazione che ha portato i balneari a scontrarsi contro la devastante sentenza di Palazzo Spada, al subire la lettera di messa in mora da parte dell’Unione europea e al vivere gli ultimi anni non da imprenditori, bensì da malati terminali. In tanti quindi si stanno chiedendo se sia valsa la pena non chiudere la questione qualche anno fa, quando si stava lavorando a una riforma tutto sommato favorevole per gli attuali imprenditori (il cosiddetto “ddl Arlotti-Pizzolante”), anziché arrivare a questo punto drammatico, con un governo ancora più ostile che vorrebbe istituire le gare immediate e senza alcun paracadute per gli attuali concessionari (anche perché nel frattempo certe soluzioni in precedenza possibili sono state sbarrate dalla giurisprudenza amministrativa, e l’obiettivo del “no alle gare” è diventato sempre più difficile da raggiungere).
La partita è comunque ancora aperta e le forze di maggioranza non sono tutte allineate sulla stessa posizione. Per esempio, dalle dichiarazioni che il ministro allo sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha condiviso con le associazioni di categoria all’ultimo appuntamento del tavolo tecnico, è emersa la possibilità di arrivare allo scontro diretto con l’Unione europea, e Lega e Forza Italia, che in questo momento stanno gestendo il tavolo sulla riforma, pare non stiano troppo assecondando la fretta di Draghi. Ma anche in questo caso c’è da chiedersi se valga la pena continuare a prendere tempo, sapendo che l’esito rischia di essere ancora più doloroso, anziché chiudere la partita subito e col minore danno possibile.
Come abbiamo scritto più volte su queste pagine, gli unici modi per evitare le gare delle imprese balneari sono uscire dall’Unione europea oppure sdemanializzare le aree su cui insistono i manufatti: la prima strada è impossibile perché le spiagge non sono certo un tema sufficiente a scatenare una “Italexit”; la seconda invece è fattibile e prevista dalla legge, ma richiede molto tempo per essere messa in pratica e soprattutto per essere fatta comprendere all’opinione pubblica, che per colpa delle recenti manipolazioni mediatiche in questo momento è più che mai ostile alla categoria dei balneari. Dunque, in questo momento critico sarebbe forse più tattico salvare il salvabile restando nel perimetro del diritto europeo, mettendosi ancora in tasca qualche anno in maniera legittima per poi lavorare con più calma a soluzioni definitive. Ma per farlo è fondamentale che tutte le associazioni di categoria restino unite, mettano da parte i litigi e i personalismi, imparino dagli errori del passato e trovino la quadra tra le loro posizioni, restando disponibili a smussare le idee più estreme e producendo un documento unitario di sintesi per raggiungere quell’unico obiettivo che mette tutti d’accordo.
Esporsi a dire che le evidenze pubbliche appaiono inevitabili non è affatto facile, perché si viene attaccati da più parti: dai soliti faziosi e dai perenni polemici, da chi è più interessato a gettare fango sugli altri per guadagnare consenso verso i propri interessi, da chi si è fatto accecare da argomentazioni illusorie e smentite ormai da tempo. Noi di Mondo Balneare siamo i primi a confidare che gli attuali concessionari proseguano il loro lavoro, ma nei dodici anni in cui ci siamo occupati di questo settore, riteniamo che sia giunto il momento di adottare posizioni realiste e responsabili per raggiungere questo obiettivo. Per questo facciamo l’ennesimo invito all’unità e alla ragionevolezza a tutti i rappresentanti politici e sindacali: oggi, in base a ciò che si dice o si fa in materia di concessioni balneari, non si tratta più di perdere o guadagnare tessere o voti, bensì di perdere o mantenere in vita migliaia di floride imprese. E questa dovrebbe essere la priorità di tutti.
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