Come tante altre cose, la “green engineering” (ingegneria verde o naturalistica) non l’abbiamo inventata noi, ma stiamo solo riscoprendo cose che erano nella normalità quando l’uomo aveva meno mezzi tecnologici e, forse, più feeling con l’ambiente. Nel campo della difesa dei litorali dall’erosione, il ritorno a metodi tradizionali potrebbe fare pensare a un fallimento di quelli più sofisticati, ma forse saremmo troppo severi se non tenessimo conto del fatto che oggi accettiamo sfide che i nostri antenati si sarebbero guardati bene dall’affrontare: saggiamente arretravano per lasciare posto al mare!
Viaggiando in paesi meno ricchi del nostro, e dove la terra che si affaccia sul mare ha meno valore, si ritrovano tutte quelle soluzioni “verdi” che hanno accompagnato il nostro insediamento sulle coste e che oggi stiamo riscoprendo.

In realtà, le prime difese di cui si abbia documentazione più che “verdi” sono “marroni”: consistono infatti di argini di terra a protezione non tanto dalle onde, quanto dalle acque alte in quei paesi che hanno ampi territori prossimi o al di sotto del livello del mare. Se ne trova traccia non per la loro costruzione, bensì per il loro crollo, come avvenne in Germania nel 1164, quando la rottura di un dyke causò la morte di circa 20.000 persone.
Piantare paletti allineati lungo la riva, ed eventualmente metterci dei sassi dietro per rinforzare la struttura, è prassi comune fra gli agricoltori che cercano di difendere i propri campi dall’ingressione marina. Queste difese, assai più evolute, si ritrovano anche a Venezia nel 18° secolo, quando lo spazio fra una serie di palizzate parallele veniva riempito di pietrame.
Una tecnica simile veniva usata anche per costruire i pennelli, e oggi la troviamo sia nella versione originale, sia con riempimento fatto da sacchetti di iuta nel mondo rurale, e di plastica o di tessuto non tessuto in quello tecnologico, in entrambi i casi pieni di sabbia.

La tecnica di costruire gabbie di pali di legno e riempirle di pietre è forse la più diffusa nei secoli passati e la troviamo dal Nord Europa al Sud America, dove in Però fu adottata per costruire i primi pennelli dell’America Latina.


Molta green engineering viene impiegata oggi nella ricostituzione e nella protezione delle dune costiere, una cosa abbastanza ovvia considerando che le dune necessitano di una certa libertà e che non possono essere stabilizzate con una colata di cemento (che poi sarebbe un seawall!). Oltre a ripiantare la vegetazione per trattenere la sabbia, si costruiscono staccati per ridurre il flusso del vento, ma si fanno anche barriere vegetali per farne crescere delle nuove o per ricostituirle dove sono state distrutte. In questi casi si possono usare siepi vive, che crescono con il crescere della duna, o siepi morte, più facili da realizzare e da mantenere, ma che perdono la propria efficacia una volta che sono sommerse dalla sabbia.

Ma, ovviamente, non tutto quanto è costruito con materiali naturali (lo sono anche gli scogli!) può essere venduto come frutto della green engineering: vi sono pennelli in legno con pali attaccati o seawall con pareti fatte da tronchi che hanno lo stesso comportamento idraulico delle omologhe strutture in pietra o in calcestruzzo. Forse il vantaggio è che durano meno!


Come ingegneria naturalistica vengono proposti anche gli oyster reefs’, gabbionate metalliche o di fibre sintetiche piene di gusci di ostriche, su cui dovrebbero poi svilupparsi nuovi individui. In alternativa sono stati proposti tubi di calcestruzzo in cui sono state allevate le ostriche o sacchi con ostriche vive. Lo sviluppo del reef dovrebbe seguire l’innalzamento del livello del mare in un processo di autoregolazione e continua protezione della costa. Queste strutture possono anche contribuire ad aumentare la biodiversità marina e svolgono importanti servizi ecosistemici. Se riempiti di gusci, sono certamente un aiuto nel problema del loro smaltimento, in un’ottica di economia circolare; ma dal punto di vista ingegneristico il loro comportamento non è diverso da quello di una scogliera parallela soffolta.
In definitiva, possiamo dire che non tutto è verde ciò che è verde, ossia che non basta essere fatti di legno, canapa e frasche per definirsi green. Con sacchi di iuta pieni di sabbia si possono costruire opere estremamente riflettenti e si può intercettare il flusso sedimentario né più né meno di quanto non faccia un pennello in palancole metalliche. Ciò non toglie che la reintroduzione di certi materiali sia stata accompagnata da una visione più ambientalista delle difese costiere, realizzando spesso strutture che non si oppongono in modo brusco all’azione delle onde. È la filosofia che guida il progettista a essere verde, non il materiale con il quale costruisce le opere!
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2 commenti
antonio trivisani says:
una buona lezione di interventi meno impattanti ma che necessitano di un bagaglio professionale non trascurabile.
Enzo says:
E non c’è una grande professionalità in giro, ma forse anche la normativa dovrebbe essere aggiornata per prevedere questo tipo di opere. E’ più facile farsi finanziare e approvare un pennello in scogli che non la rinaturalizzazione di un tratto di litorale!
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