Quanti bambini si mettono a piangere quando, appena scavalcata la duna o superate le cabine, vedono il mare? E questo non succede solo la prima volta, bensì può accompagnare un’intera vacanza, con grande frustrazione dei genitori che già speravano, loro, di giocare con paletta e secchiello. Le coste hanno attratto l’uomo fin dagli albori della sua storia per le opportunità che offrono: clima mite, superfici favorevoli all’agricoltura, facilità dei collegamenti e, più recentemente, salute e svago. Ma sappiamo che i nostri antenati hanno sempre mantenuto una rispettosa distanza dall’acqua, e forse i nostri figli sentono ancora quella paura ancestrale che gli uomini avevano nei confronti di quei mostri marini che erano pronti ad afferrarli non appena si fossero allontanati dalla riva. Non a caso il Levitano, presente anche nella Bibbia, rappresenta il caos e il male assoluto e veniva spesso rappresentato come un serpente marino.
La paura dell’uomo nei confronti del mare è testimoniata anche dal fatto che nelle carte geografiche più antiche prodotte in Europa i mostri (unicorni, leoni a due teste, serpenti con la lingua di fuoco e quant’altro gli antichi potessero immaginare) venivano disegnati sulle terre e sui mari, ma sulle prime scompaiono man mano che vengono esplorate, mentre sui secondi restano anche dopo che gli europei hanno solcato tutti i mari del mondo. E oltre ai mostri, quanti pericoli, in genere immaginari, vi sono in mare, dal Maelstrom di Edgar Allan Poe al più recente Triangolo delle Bermuda!

I nostri antenati cacciatori-raccoglitori costruivano i primi insediamenti stabili proprio lungo le coste, dove vi era l’accesso ad abbondanti risorse alimentari senza doversi spostare in continuazione, ma certamente non erigevano le capanne sulla battigia. Il mare e la terra non erano visti solo come due elementi diversi, ma come veri e propri mondi separati e, in quanto limite fra due mondi, la costa era percepita come pericolosa. Ma in realtà questo elemento geografico non è esistito come tale fino al diciottesimo secolo, e il termine “costa” (come accostare, costeggiare), veniva usato per dire “vicino a qualcosa” e, nel nostro caso, vicino al mare.
In molte culture la costa era il regno dei morti, e molte passerelle che si affacciavano sul mare avevano più un valore simbolico che non pratico. Sulle spiagge e sui bordi delle zone umide costiere venivano celebrati i riti di passaggio, come dimostrano gli oggetti votivi e le sepolture che sono state rinvenute. E di riti ne abbiamo ancora moltissimi sulle coste di tutto il mondo, come per esempio in Kerala (India meridionale), dove gli induisti si raccolgono a decine di migliaia sulla spiaggia con la luna nuova dell’ultimo mese dell’anno (fra luglio e agosto) per il Bali Dharpanam, ossia l’offerta votiva ai propri antenati. Manifestazioni religiose che diventano anche occasioni di richiamo turistico, come quelli che si svolgono a Bali, dove è stato studiato quanto gli spettatori esterni contribuiscano al sostentamento economico di questi eventi, che possono essere anche assai costosi per i membri più poveri della comunità. Addirittura, anche un rito non funebre celebrato su una spiaggia si è trasformato nel reale passaggio fra la vita e la morte, quando 11 delle 23 persone che stavano meditando sulla spiaggia di Payangan (Giava), nonostante le previsioni di una forte mareggiata, furono portate via da un’onda più grossa e annegarono.
Il legame fra le spiagge e la morte è fortissimo in tante culture, tanto che Elizabeth Ellison della Central Queensland University ha studiato come la morte viene rappresentata sulle spiagge australiane nella letterature e nel cinema. Per le popolazioni che hanno uno stretto contatto con il mare è normale seppellire i propri cari in prossimità della riva, e ai cimiteri vengono riservati i punti più spettacolari della costa: per esempio sulla spiaggia di Anse du Souffleur (Guadalupe), una delle più belle del mondo, le tombe sono scavate nella spiaggia e ornate da grandi conchiglie. In questa direzione può essere anche letta l’idea dei memoriali sottomarini che si sta affermando negli Stati Uniti, e che da noi hanno un unico esempio nella Laguna di Venezia: le ceneri del defunto vengono inserite in un modulo reef artificiale al quale viene apposta una placca commemorativa: non fiori, ma opere di difesa!

Anche se molti cimiteri in Europa sono collocati sulle coste, il mare è stato sempre visto come sede delle forze più oscure e origine di malvagità. Platone suggeriva di spostare le città verso l’interno perché il mare è un cattivo compagno che ci induce a comportamenti immorali, citando il commercio, che spesso veniva tenuto fuori dalle mura cittadine. D’altra parte, il l’onesto e saggio agricoltore è sempre stato portato come esempio di moralità, cosa che non può essere certamente detta del marinaio!
Un altro motivo per non stabilirsi troppo vicino al mare era la paura di attacchi di nemici e pirati, diffusa lungo tutte le coste del mondo e non ancora del tutto cancellata. «A furore Normannorum libera nos, Domine!» («Dalla furia dei Normanni liberaci, o Signore!») è la frase che avrebbe chiuso le preghiere nei monasteri dell’Alto Medioevo sulle coste britanniche, mentre in Italia, ma non solo, già a partire dal Cinquecento si svilupparono istituzioni governative e confraternite religiose per il riscatto degli schiavi poveri, allo scopo di raccogliere le somme necessarie per consentire la liberazione dei cristiani ridotti in schiavitù dai musulmani (gli schiavi ricchi potevano ricomprarsi da soli…!).
È strano pensare che quelle che un tempo erano le porte d’ingresso per l’inferno, siano per noi diventate dei paradisi terrestri. Paradisi verso i quali siamo accorsi senza più la paura che tratteneva i nostri antenati e nei quali abbiamo costruito città, fabbriche, strade, ferrovie e stabilimenti balneari, che abbiamo poi dovuto difendere con scogliere di ogni tipo. Ed ecco che così le abbiamo trasformate nuovamente in un inferno, e anche i riti che vi celebriamo ogni estate sono tornati a essere pagani!
N.B. Molto di più sull’argomento può essere letto in The human shore di John R. Gillis (The University of Chicago Press), da cui sono tratte alcune di queste informazioni.
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