Un comparto di 30.000 imprese balneari, ma anche un po’ tutto il resto d’Italia, sta guardando alla scadenza delle concessioni demaniali marittime fissata al 31 dicembre 2023 dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato che, chiamata a pronunciare sull’anticomunitarietà della proroga automatica disposta dalla legge 145/2018 al 31 dicembre 2033, l’ha di fatto “concessa” per un periodo minore, appunto sino al 31 dicembre 2023. Tralasciando i possibili profili di invasione del potere legislativo che saranno valutati dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, un dato è certo: se la risorsa non è scarsa, viene meno la premessa logica della pronuncia e quindi l’obbligo di mettere a gara le concessioni in essere, potendosi consentire l’accesso dei terzi al mercato con l’affidamento della risorsa a disposizione.
Fulcro e premessa logica della decisione del massimo consesso della giustizia amministrativa è stato l’assunto che le aree demaniali a disposizione di nuovi operatori economici sono caratterizzate da una notevole scarsità, acclarata sulla base dei dati forniti dal Sistema informativo demanio del Ministero delle infrastrutture secondo cui quasi il 50% delle coste sabbiose è occupato da stabilimenti balneari, con picchi che in alcune Regioni come Liguria, Emilia-Romagna e Campania arrivano quasi al 70%. Ma così non sembra essere, dato che, da quanto si apprende da autorevoli organi di stampa nazionale, il dato che sta emergendo dai lavori del tavolo tecnico presso la presidenza del consiglio dei ministri è che ci sono molti spazi liberi che si attesterebbero intorno al 70%.
Salvo sorprese dell’ultimo momento, se tale dato dovesse essere definitivamente confermato, il presupposto logico fondante la miniproroga concessa dall’adunanza plenaria al 31 dicembre 2023 verrebbe clamorosamente meno e rimarrebbe il principio deliberato lo scorso 20 aprile dalla Corte di giustizia europea – dalla notoria portata vincolante – che riconosce agli Stati membri un certo margine di discrezionalità nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali, rimarcando che «l’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2006/123 deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che la scarsità delle risorse naturali e delle concessioni disponibili sia valutata combinando un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e un approccio caso per caso, basato su un’analisi del territorio costiero del comune in questione». Trattasi di evidenza che, se da un lato farà venir meno in modo naturale lo spettro del 31 dicembre 2023, dall’altro consentirà di porre sul mercato le abbondanti risorse di cui il paese dispone, normando con ragionevolezza anche la fine dei rapporti in essere.
È altrettanto ovvio che in tal caso la politica dovrà fare con chiarezza la sua parte, spegnendo quella poco gratificante ostilità tra poteri dello Stato attraverso la codificazione del dato definitivo sulla risorsa accertata, magari nell’ambito di quella tanto anelata riforma sistemica sul demanio – normato dal Codice della navigazione del 1942 – che darebbe certezze a un comparto che, a torto o a ragione, ha trainato le sorti dell’economia italiana e non merita certo di essere mandato a casa senza nemmeno un grazie, reo di aver creduto in un sistema di regole cambiate durante la partita.
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