Annegamenti sulle spiagge italiane, il primo rapporto con tutte le statistiche

Questo articolo fa parte di "Granelli di sabbia"

Divagazioni su processi, forme e tematiche ambientali della spiaggia. Una rubrica a cura del GNRAC.

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Un recente intervento di soccorso per un annegamento sulla spiaggia di Ravenna (foto © Sezione di Ravenna della Società nazionale di salvamento).

Con l’arrivo della bella stagione arrivano anche le brutte notizie: quasi ogni giorno sulle pagine dei quotidiani si racconta di qualche annegamento avvenuto nei luoghi di balneazione, lungo le nostre coste, nei fiumi o nelle piscine. E queste notizie riguardano per lo più solo quelli che muoiono nell’acqua o poco dopo essere portati a terra (annegamento primario); mentre chi arriva in ospedale, ma poi non sopravvive (annegamento secondario), non fa quasi più notizia: solo uno su cinque di questi annegamenti arriva agli organi d’informazione, in particolare quando si tratta di un annegamento eclatante, per esempio riguardante un bambino, un giovane o qualcuno che ha uno status sociale elevato.

Di solito il giornalista che descrive l’incidente attinge le notizie da fonti che reputa informate (bagnini di salvataggio, concessionari balneari, funzionari locali), cioè da soggetti che, nell’incertezza, preferiscono attribuire le cause di ciò che è accaduto a eventi non evitabili, se non altro per non attribuire a se stessi o a colleghi eventuali responsabilità, ma anche per allontanare da una località balneare un’immagine negativa di pericolosità o inefficienza. E così, sulla stampa la causa dell’annegamento è quasi sempre un “malore” della vittima. Infatti un episodio di annegamento – ovvero un incidente nel quale c’è un morto di mezzo – solleva molti interrogativi sul piano penale che è opportuno allontanare quanto prima. Ma se la causa di morte potrebbe anche essere “un infarto”, la causa dell’incidente potrebbe essere stata una rip current (corrente di ritorno): è anche per questo che conoscere l’entità di questo fenomeno, capire chi ne viene colpito e in quali condizioni, non è cosa facile.

Oggi però finalmente abbiamo un quadro piuttosto chiaro di questa situazione alla quale bisogna porre rimedio. È infatti di imminente pubblicazione il primo “Rapporto dell’Osservatorio per lo sviluppo di una strategia nazionale di prevenzione degli annegamenti ed incidenti in acque di balneazione“, istituito dal Ministero della salute1, a cura di Fulvio Ferrara, Enzo Funari e Dario Giorgio Pezzini. All’interno del rapporto vi troviamo un’analisi delle principali criticità che portano agli annegamenti di chi fa il bagno per piacere e alcune proposte per la mitigazione del rischio. Il Rapporto è incentrato sugli annegamenti lungo i litorali marittimi, ma riporta anche una prima analisi di questi incidenti nelle acque interne, esamina il ruolo del servizio di sorveglianza e salvataggio nelle spiagge italiane, e descrive la fisiopatologia dell’annegamento.

Il rapporto si concentra principalmente sugli annegamenti che avvengono sulle nostre coste marine, ed è un documento che dovrebbero leggere, se non studiare, tutti coloro che a vario titolo gestiscono le spiagge italiane. Per quanto riguarda invece le acque interne, con questo termine si intende una grande varietà di corpi idrici: non solo fiumi e laghi, ma anche torrenti, canali, bacini artificiali, rogge, cave e stagni. Fra il 2016 e il 2021, in questi luoghi si sono registrati in media 78 decessi all’anno, un numero particolarmente alto, se si considera che vengono frequentati da un numero limitato di persone. Questo tema, solo brevemente trattato nel rapporto, sarà oggetto di una successiva indagine che richiede un allargamento del gruppo di lavoro a cui l’Istituto superiore di sanità sta già lavorando.

In generale, comunque, gli annegamenti in aree di balneazione – sulle spiagge, nelle piscine e nelle acque interne – sono circa i tre quarti del totale, e rappresentano quindi la voce di gran lunga più rilevante del fenomeno. La nostra rubrica “Granelli di sabbia” ha già affrontato in varie occasioni il problema degli annegamenti in mare, sia sulle spiagge naturali sia su quelle in cui sono presenti opere di difesa di vario tipo: si tratta di temi presenti anche nel rapporto dell’Istituto superiore di sanità, e che vogliamo qui riprendere supportandoli con dei numeri che meglio spiegano la gravità della situazione e l’urgenza di porvi rimedio, ma anche affiancarli con alcune considerazioni riportate nel documento che gettano una luce chiara (ma nera!) su questa criticità del sistema turistico-balneare italiano.

Ci concentreremo sul capitolo “Gli incidenti di annegamento in Italia nelle aree di balneazione”, scritto da Giorgio Pezzini, uno fra i massimi esperti internazionali di queste tematiche, dove viene anche proposta una nuova terminologia più chiara di quella oggi in uso per descrivere la varie fasi in cui possono evolversi gli incidenti di annegamento. Lo faremo anche citando alcune frasi del Rapporto, perché non sapremmo esprimere gli stessi concetti con pari incisività.

I dati raccolti da Pezzini dicono che in Italia ogni anno – a fronte di circa 400 annegamenti fatali e di 800 ospedalizzazioni per annegamento – si contano circa 60.000 salvataggi (solo sulle spiagge), e più di 600.000 interventi di prevenzione da parte dei bagnini. Già questo ci fa capire come un servizio di salvataggio sia essenziale per la collettività e come un aspetto importante del lavoro dei bagnini sia non soltanto quello di fare salvataggi, ma anche quello di prevenire sul nascere gli episodi di annegamento. Ovviamente le informazioni raccolte vanno lette e interpretate alla luce di molti fattori, dalla frequenza dei soggetti appartenenti alle varie classi di età, fino alla morfologia della costa, dall’estensione delle spiagge in ciascuna regione, fino alle caratteristiche meteomarine e la tipologia di difesa costiera: c’è un gran lavoro da fare, ma i dati ci sono tutti!

In Italia, nei primi anni ’70, gli annegamenti erano quasi 1.400 all’anno, per andarsi poi a ridurre fino al valore di circa 400 all’anno alla fine degli anni ’90. Purtroppo non è stato possibile scendere ulteriormente e sapere che i nostri dati non sono dissimili di quelli degli altri paesi ad alto reddito, o che in Vietnam annegano ogni anno circa 3.500 bambini (dieci al giorno!) e sul lago Vittoria le vittime annue sono tra le 5.000 e le 6.000, non sono motivi per ridurre il nostro impegno nella lotta a questa nostra criticità.

Tra le cause che hanno prodotto questa riduzione degli annegamenti in Italia va annoverato senza dubbio l’apprendimento del nuoto, in genere nelle piscine, l’educazione alla sicurezza in acqua della popolazione, e, certamente, la crescente presenza dei bagnini di salvataggio e la loro maggiore professionalità. Il report ci dice però che molto può essere fatto per ridurre la frequenza di questi eventi drammatici, sia perfezionando la struttura stessa del sistema di salvamento, sia incidendo sulla percezione che si ha del fenomeno. Come scrive Pezzini, «l’annegamento in seguito a un malore viene visto come qualcosa di inevitabile contro cui non c’è nulla da fare, un “Act of God”, un evento imprevedibile dovuto a cause naturali di cui nessuno ha colpa. Le persone anziane muoiono in acqua perché sono “fragili”, affette da comorbilità. Alla fine della stagione, è ormai un leitmotiv nelle regioni del centro nord, maggiormente colpite: “Non ci sono stati di fatto annegamenti perché tutti o quasi gli eventi infausti hanno riguardato persone anziane colpite in acqua da malore“».

annegamenti
Annegamenti in funzione dell’età della vittima (media annua sul periodo 2016-2021; classi di età non omogenee).

Nonostante il miglioramento del servizio di salvamento e dalla preparazione degli addetti, a cui abbiamo fatto cenno, l’evoluzione della società e delle sue abitudini sta rendendo meno efficiente il sistema: «Il servizio di sorveglianza e salvataggio sulle spiagge si sta deteriorando di fronte a una struttura complessiva dell’annegamento mutata e non sa rispondere alle sfide di una situazione resa diversa soprattutto dall’invecchiamento della popolazione italiana (e in subordine per la presenza degli immigrati)», scrive Pezzini. «Il sistema – per dirla con una parola di moda oggi – non si è dimostrato resiliente. È quantomai necessario un provvedimento statale che riordini la questione, con precise direttive non eccepibili a livello locale, perché sarebbero immediatamente cassate da forti interessi settoriali e agguerriti gruppi di pressione».

I progressi fatti negli anni in altri Stati comparabili con il nostro, sono stati aiutati anche da specifiche normative nazionali alle quali tutti si attengono. A tal proposito, Pezzini rileva che «una peculiarità italiana è la mancanza di una normativa nazionale in grado di regolamentare in modo uniforme i servizi che dovrebbero garantire la sicurezza degli utenti sulle spiagge come un compito dello Stato. Saper scrivere buone leggi in grado di coniugare l’interesse pubblico con quello privato sembra essere diventato estraneo alla nostra legislazione». Un esempio? «Il significato della bandiera gialla, in Italia, varia da regione e regione e indica in alcune, come in Liguria o in Sardegna, “vento forte” (col conseguente divieto di aprire gli ombrelloni o di locare natanti); in altre indica una riduzione della sorveglianza (un “affievolimento”, come in burocratese recitano le ordinanze), cioè, in orari predeterminati, il passaggio da una gestione del servizio incentrato sul singolo stabilimento a una organizzazione per “settori” che consorziano più stabilimenti limitrofi e allungano il tratto sul quale è competente una postazione di salvataggio. La presenza simultanea delle bandiere rossa e gialla indica, in altre località, l’assenza della sorveglianza (per una ironia della sorte questi due colori delimitano in Gran Bretagna e nei paesi un tempo o tuttora nel Commonwealth il tratto di spiaggia sorvegliato dove si può fare il bagno in sicurezza)».

«Un discorso analogo può esser fatto per le attrezzature di salvataggio», prosegue Pezzini. «Le spiagge sono inondate da inutili salvagenti anulari. La “ciambella”, come sa qualsiasi bagnino, è inutilizzabile tra i frangenti. Nata per essere gettata dall’alto di una nave “all’uomo in mare” in attesa di essere recuperato, non la si può trascinare nuotando tra le onde se non al prezzo di un’inefficienza letale, e lanciare un salvagente da una spiaggia poi è come sputare controvento. Le uniche spiagge europee dove sono ancora presenti sono quelle spagnole, mentre nel resto del mondo i bagnini hanno a disposizione, da più di un secolo, efficientissimi rescue can (i cosiddetti salvagenti “tipo baywatch”) o rescue tube, ignorati ancora oggi da molte ordinanze di sicurezza balneare e da altre considerati “sperimentali” (quando sono utilizzati da più di cento anni in tutto il mondo e da una trentina d’anni anche in Italia!), quindi non obbligatori ma facoltativi, cioè non sperimentati da nessun stabilimento balneare che non sia costretto a comprarli».

Ovviamente il capitolo in questione tratta moltissimi altri aspetti relativi all’annegamento e fornisce una quantità di dati, sia in forma di tabelle che di grafici e mappe, che forniscono un quadro estremamente accurato del fenomeno, come mai si era avuto fino ad oggi.

Numero medio annuo di annegamenti registrati sulle spiagge nelle varie regioni italiane calcolato sul periodo 2016-2021.

Nel periodo considerato (2016-2021) la causa più frequente di annegamento sulle spiagge è stata data da un malore che ha colpito una persona mentre faceva il bagno (in media 58 casi all’anno), seguita da vicino dall’azione delle correnti di ritorno (50 all’anno), di cui oltre un terzo prodotte da strutture marittime. Gli annegamenti di persone che non sanno nuotare sono circa 26 all’anno, mentre piuttosto rari (5 all’anno) sono gli annegamenti per attività sportive e per caduta in acqua.

Frequenza delle varie tipologie di annegamento registrata sulle spiagge italiane (media annua su periodo 2016-2021).

Ma tutto il Rapporto è una miniera di dati e di informazioni che toccano le tante problematiche connesse con l’annegamento, da quelle dell’ambiente fisico, naturale o antropizzato, alla fisiologica dell’evento, fino alla caratterizzazione professionale del bagnino di salvataggio, come emerge dall’indice qui riportato.

Osservatorio per lo sviluppo di una strategia nazionale di prevenzione degli annegamenti e incidenti in acque di balneazione. Rapporto 2023. Indice

  • Prefazione
  • Gli incidenti di annegamento in Italia nelle aree di balneazione
  • Le aree per la libera balneazione. Problematiche gestionali nella prevenzione degli annegamenti e possibili soluzioni
  • Le opere di difesa costiera e i rischi nella balneazione
  • Individuazione delle spiagge in relazione ai pericoli intrinseci per la balneazione
  • L’ annegamento: definizioni, fisiopatologia e sindromi correlate
  • La futura figura professionale del bagnino di salvataggio e Caratteristiche per l’accreditamento di enti alla formazione del bagnino di salvataggio.
  • Conclusioni
  • Stato dell’arte
  • Proposte dell’Osservatorio

I dati disponibili sugli annegamenti indicano la necessità di predisporre un “Piano nazionale per la sicurezza delle spiagge“, come d’altra parte raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità. Il piano dovrebbe contenere da un lato indicazioni per elaborare una regolamentazione normativa uniforme, specificando tra i vari aspetti gli ambiti di competenza istituzionale a livello nazionale e territoriale, e dall’altro delle misure di prevenzione di immediato approntamento come standard minimo necessario per le aree di balneazione su tutto il territorio nazionale.

Note

1. L’Osservatorio per lo sviluppo di una strategia nazionale di prevenzione degli annegamenti e incidenti in acque di balneazione è stato istituito dal Ministero della salute nell’ottobre del 2019. Hanno partecipato alla stesura del Rapporto: Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Ispra, Corpo delle Capitanerie di Porto, Gruppo Nazionale per la Ricerca sull’Ambiente Costiero, Anci, Società Nazionale di Salvamento, Ospedale del Bambin Gesù.

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