C’è un tesoro in fondo al mare che vale più di quanto non nasconda il Titanic, e più di tutto l’oro che trasportavano i galeoni spagnoli naufragati durante il loro ritorno dalle Indie; e come tutti i tesori in cui ci s’imbatte per caso, può determinare la fortuna di chi lo trova, ma anche la sua rovina se non ne sa fare un uso oculato. Questo tesoro è costituito dalle sabbie che formavano le antiche spiagge quando, durante le fasi glaciali, il livello del mare era più basso di oggi, e che sono state sommerse dalla sua risalita dopo l’ultima fase glaciale, in cui picco è avvenuto circa 20.000 anni fa. Ora si trovano sulla piattaforma che orla i vari continenti e formano i cosiddetti “depositi sedimentari marini relitti“, il cui sfruttamento è da molti considerato come la soluzione vincente ai problemi dell’erosione dei litorali, indotta dal mancato apporto di sabbia da parte del sistema fluviale e dall’innalzamento del livello marino.

Queste sabbie si trovano a profondità anche superiori ai 130 metri, ed è oggi possibile estrarle con draghe che sono poi capaci di trasportarle per grandi distanze, e sparale o convogliarle a riva per far crescere le spiagge. Le tecniche di ricerca sono estremamente sofisticate e fanno tesoro di quanto la sedimentologia e la geofisica marina hanno sviluppato negli ultimi decenni; e anche se la sabbia è stata coperta dal fango, che si deposita oggi sui fondali maggiori, è possibile non solo trovarla, ma anche estrarla dopo avere rimosso i sedimenti più fini sovrastanti.
Sono passati esattamente cento anni da quando è stato realizzato il primo grande (e forse ora piccolo!) progetto di ripascimento di un litorale che abbia fatto ricorso a questi sedimenti, quello cioè che portò alla deposizione di 1.200.000 metri cubi di sabbia sulle spiagge di Coney Island e Brighton Beach, a New York. In realtà la sabbia proveniva da zone di dragaggio lontane non più di un chilometro da riva, e quindi da non considerare proprio come sabbie relitte. In seguito venne il più noto progetto di Copacabana, a Rio de Janeiro, con ben due milioni e mezzo di metri cubi di sedimenti. Si tratta di valori che fanno ridere in confronto a quelli che caratterizzano gli interventi attuali, che possono utilizzare tecnologie inimmaginabili un secolo fa. Basti pensare al ripascimento della costa posta a est di Rotterdam, effettuato con più di 21 milioni di metri cubi di sabbia dragata in mare.
Se inimmaginabili erano le tecnologie, ancor più lo erano le esigenze, quando l’erosione dei litorali toccava solo pochi tratti costieri e l’industria del turismo balneare era ancora un fenomeno di élite. Oggi invece la sabbia non finisce solo sulle spiagge, ma anche nelle bonifiche di aree umide costiere e nell’espansione delle terre emerse in paesi con una piccola superficie e un forte sviluppo demografico, come per esempio Hong Kong e Singapore. In Italia fino a oggi sono stati estratti circa 25 milioni di metri cubi di sabbie, andati in prevalenza in interventi effettuati in Veneto, Lazio ed Emilia-Romagna, ma altre regioni hanno indirizzato in questo senso le proprie strategie di difesa costiera, e questo numero è destinato a crescere rapidamente.
Ma perché lo sfruttamento di questo tesoro costituito da miliardi di metri cubi di sabbia può rivelarsi catastrofico? L’attenzione su questo problema si è riaccesa negli ultimi giorni con la pubblicazione dei dati prodotti da UNEP-GRID, che ha sviluppato una piattaforma che sfrutta l’intelligenza artificiale e sulla quale chiunque può andare a vedere in tempo reale le navi che trasportano sabbia, nonché evidenziarne nazionalità, capacità di carico e rotta. Con questi dati è stata calcolata la quantità di sabbia estratta dai mari del mondo: 6 miliardi di tonnellate all’anno, che equivalgono a un milione di camion al giorno! Si capisce quindi come questa risorsa, seppure enorme, non sia infinita, e in molti paesi si sta esaurendo, tanto che si va a dragarla, e spesso a rubarla, sulla piattaforma continentale di altri stati.
La fame di sabbia è così forte che si è sviluppato un mercato illegale che, come valore, è il terzo al mondo per importanza dopo quello della droga e quello della contraffazione. Quando la sabbia “a buon mercato” dei depositi marini si esaurisce, si deve fare ricorso alle cave terrestri, con costi estremamente più elevati e che possono mettere in crisi le strategie di risposta all’erosione marina fino a quel momento adottate. Ecco allora che in Florida, dove ci si è opposti all’erosione delle spiagge grazie ai depositi sedimentari marini, ci si deve ora rifornire da cave terrestri, rendendo assai più costoso il mantenimento di quella strategia di adattamento all’ingressione marina che inizialmente sembrava poter garantire il futuro del turismo costiero.
Secondo uno studio pubblicato da Nicole Elko e altri studiosi nel 2021, negli Stati Uniti sono stati utilizzati 1,2 miliardi di metri cubi di sabbia per alimentare 465 spiagge in 3200 interventi. È vero che le loro coste sono un po’ più lunghe delle nostre, ma con i nostri 25 milioni di metri cubi forse non ci farebbero neppure un castello di sabbia! Se le previsioni di un gruppo di lavoro costituito dalla Banca mondiale si avvereranno, dall’attuale 3% di litorali del mondo oggetto di ripascimento artificiale si passerà al 18-33%, con una guerra (speriamo solo economica!) per accaparrarsi gli ultimi granelli di sabbia.
In Italia, come abbiamo detto, il ricorso a sabbie sottomarine, prelevate vicino a costa o sui fondali più lontani, si fa sempre più frequente, ma non sempre lascia soddisfatti i vari soggetti, pubblici e privati, a cui sta a cuore la salute delle spiagge. Molto spesso la durata del ripascimento è inferiore a quella prevista nei progetti o comunque attesa dagli operatori economici, tanto che si va perdendo la fiducia in questa strategia di risposta al mare che avanza. Ogni ripascimento non protetto da opere marittime andato male stimola la richiesta di pennelli e scogliere parallele; e se queste opere già c’erano, si chiede il loro potenziamento.
Molti degli insuccessi, o dei successi parziali, dipendono dal fatto che si è utilizzata sabbia più fine di quella nativa, che risulta quindi meno stabile. Le dimensioni dei sedimenti di quasi tutte le spiagge diventano progressivamente minori via via che ci si allontana dalla riva, ed è quindi evidente che, se si prendono al largo, sono più fini di quelli che formano l’arenile… e avranno una gran voglia di tornare a casa propria!
Anche le sabbie che formavano le antiche spiagge potrebbero essere più fini di quelle che costituiscono i nostri litorali, almeno in alcune situazioni, come quella dei sedimenti portati dal Po quando sfociava al largo sotto l’attuale Ancona: aveva un corso assai più lungo, e sappiamo bene che per strada vengono persi i sedimenti più grossolani, o comunque rotolando subiscono una riduzione delle dimensioni. Un fiume che sfocia direttamente in mare dopo essere sceso dalle montagne porta ghiaia, mentre uno che ha una lunghissima pianura alluvionale porta sabbia fine e fango. È quindi difficile trovare sulle antiche spiagge dei sedimenti più grossolani di quelli che i fiumi scaricano oggi in mare e che vanno poi ad alimentare le nostre spiagge, anche se in certe situazioni geologiche, come sul fondo dei canyon sottomarini o ai piedi di ripide scarpate, sono state trovate sabbie grossolane e anche ghiaie, come per esempio in Liguria, Campania e Sicilia.

Le sabbie che troviamo sui fondali marini possono dare un contributo importante al mantenimento delle spiagge come risorsa per il turismo balneare, ma sul lungo termine difficilmente ci salveranno dall’innalzamento del livello del mare. Ecco perché affidarsi troppo ai “diamanti” sommersi potrebbe farci illudere di aver trovato una soluzione “per sempre” e indurci così a distrarre risorse che potrebbero venir destinate allo sviluppo di strategie più idonee a consentire il benessere delle popolazioni costiere negli scenari che il riscaldamento globale ci sta preparando… quando ben altri tesori verranno sommersi!
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