Infine si è arrivati all’ennesima crisi di governo, con Lega e Movimento 5 Stelle che ieri, non partecipando al voto di fiducia in Senato, hanno di fatto spinto il presidente del consiglio Mario Draghi a rassegnare le dimissioni; cosa che pare farà oggi. E con questa caduta anticipata dell’esecutivo (l’ottavo negli ultimi undici anni), ad andarci di mezzo è ancora una volta la riforma delle concessioni balneari, che se stiamo attendendo da oltre un decennio, è anche per colpa della grave instabilità politica italiana. Il ddl concorrenza, che conteneva il riordino del demanio marittimo, è infatti stato approvato solo al Senato e avrebbe dovuto essere votato alla Camera il prossimo 27 luglio, ma a questo punto non è affatto scontato che ciò avvenga.
Per il presidente del consiglio, la vicenda delle spiagge sembrava una vera e propria ossessione: c’è una pericolosa guerra in corso alle porte dell’Europa e stiamo cuocendo lentamente come aragoste a causa del riscaldamento globale, eppure la priorità di Draghi era quella di istituire a tutti i costi le gare delle concessioni balneari, che è il tema citato più volte nel suo discorso di ieri in aula. Peraltro il premier lo ha fatto mentendo, poiché ha legato la questione al Pnrr che in realtà con le concessioni balneari non c’entra nulla, basta leggerlo.
Ora però, con la caduta del premier che doveva salvare l’Italia e che invece si è dimostrato orientato solo a favorire gli interessi dei grandi apparati finanziari e del capitalismo globale, è probabile che il ddl concorrenza non verrà mai approvato alla Camera. Il problema, come abbiamo già detto, è cosa succederà nei prossimi mesi: sulle concessioni balneari pende comunque la scadenza perentoria del 31 dicembre 2023 imposta dal Consiglio di Stato, e chiunque arriverà dopo Draghi, non avrà abbastanza tempo per lavorare a una riforma adeguata alla complessità del tema. L’attuale premier voleva istituire le evidenze pubbliche con un particolare accanimento e senza ascoltare le richieste della categoria sul riconoscimento del valore aziendale, ma il rischio è che anche chi arriverà dopo possa fare lo stesso: non si tratta di “fare il tifo per le gare”, bensì di prendere atto con realismo dell’attuale situazione giuridica, che è ormai talmente ristretta da non consentire molte altre strade. Anche il prossimo tentativo di riforma, insomma, rischia di non essere tanto diverso da quello scritto sui provvedimenti finora presentati e mai approvati, dalla bozza Fitto alla proposta Gnudi, dal ddl Arlotti-Pizzolante alla legge sulla concorrenza; e peggio ancora sarebbe arrivare al 2023 senza una riforma, che significherebbe costringere le amministrazioni comunali a procedere ognuna per conto proprio, in una situazione di totale anarchia e disparità. Dunque che si festeggi pure la caduta di Draghi, ma lo spettro delle gare non si è purtroppo affatto allontanato: la storia si ripeterà ancora una volta, e si spera che ciò avvenga senza danni per un settore per cui si continua a rinviare ogni volta la soluzione, portandolo così sempre più vicino a precipitare senza alcun paracadute.
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