Come ogni estate, anche quest’anno sui principali media generalisti sono usciti i soliti servizi faziosi che se la prendono contro i presunti “privilegi” dei balneari, che sarebbero colpevoli di pagare canoni esigui a fronte di incassi spropositati. Da testata di settore, Mondo Balneare non può esimersi dal contestare questi articoli che diffondono dati parziali per gettare fango contro la categoria e metterla in cattiva luce agli occhi dell’opinione pubblica.
Questa volta lo spunto è arrivato da un comunicato di Legambiente, che due giorni fa ha pubblicato il dossier “Le spiagge sono di tutti!” e che se la prende contro quella che definisce «privatizzazione delle coste italiane», denunciando che «oltre il 60% delle coste sabbiose in Italia è occupato da stabilimenti balneari, con concessioni senza controlli e canoni bassissimi a fronte di guadagni enormi». Luoghi comuni, quelli riportati questa volta da Legambiente, che sono stati subito ripresi dalle principali testate giornalistiche italiane, da Repubblica al Corriere della Sera, alimentando ulteriormente la fake news e citando le basse cifre corrisposte da alcuni stabilimenti balneari in tutta Italia.
Purtroppo, per lo scarso livello di giornalismo che abbiamo in Italia, nessuna redazione si è preoccupata di fare maggiori approfondimenti, ma tutti si sono limitati a pubblicare il comunicato di Legambiente, scatenando un attacco mediatico basato sul nulla. Per questo, riportiamo qui di seguito tutte le inesattezze contenute nei vari articoli che si sono susseguiti negli ultimi giorni. E chiediamo ai balneari di tutta Italia di condividere questo articolo per diffondere la verità.
I canoni non sono bassi, ma squilibrati
È vero, ci sono alcuni stabilimenti balneari che pagano poche centinaia di euro di canone, ma si tratta di casi limitati. Gli articoli di giornale in questione, invece, tendono a prendere questi piccoli esempi per spacciarli come la normalità. E si dimenticano che esiste anche l’estremo opposto: cioè quei circa trecento stabilimenti balneari “pertinenziali” che pagano centinaia di migliaia di euro a causa dell’errata applicazione dei valori OMI. Nel mezzo, ci sono poi tutti gli altri che pagano cifre giuste e sostenibili.
I canoni corrisposti per le concessioni balneari non sono quindi bassi, ma piuttosto squilibrati. C’è chi paga troppo e c’è chi paga troppo poco.
I balneari sono i primi a essere disposti a pagare di più
Nell’ambito della riforma generale che il settore attende da anni, se c’è una cosa che mette d’accordo tutte le otto associazioni di categoria, questa è proprio il riordino dei canoni. Gli imprenditori balneari sono infatti i primi a denunciare la situazione di squilibrio sopra descritta, e nelle trattative portate avanti negli ultimi anni con i precedenti governi, hanno sempre messo sul piatto la disponibilità a subire un aumento generale dei canoni più bassi, a patto di eliminare gli squilibri al rialzo subìti dai pertinenziali.
Il canone non è l’unica spesa dei balneari
C’è poi un altro errore che i media generalisti compiono ogni volta che pubblicano questi articoli contro i “privilegi” dei balneari: si prende cioè il canone come se fosse l’unica spesa affrontata da uno stabilimento. Ma non è affatto così. Oltre alle normali voci affrontate da qualsiasi impresa (tasse, personale, eccetera), ci sono infatti alcuni costi che sono specifici dei titolari di spiaggia, e che nessun giornalista cita mai:
- Gli stabilimenti balneari sono le uniche imprese del settore turistico ad avere il 22% di Iva, contro il 10% di alberghi, campeggi, eccetera.
- Gli stabilimenti balneari pagano enormi tasse sui rifiuti, poiché la Tari è applicata su tutta la superficie della spiaggia occupata; dunque anche sull’immondizia prodotta dai clienti e sui rifiuti spiaggiati.
- Gli stabilimenti balneari pagano l’Imu sui loro manufatti, anche se si trovano su una concessione demaniale.
- Gli stabilimenti balneari sostengono le spese per il servizio di salvataggio (marinaio, moscone, torretta, defibrillatore) e per la pulizia dell’arenile (macchine puliscispiaggia, servizio smaltimento): si tratta di servizi che vanno a beneficio dell’intera collettività, e che sono a carico di imprenditori privati. Quando un bagnino salva una persona in mare, non si preoccupa certo di chiedergli se è cliente dello stabilimento balneare che gli paga lo stipendio!
- Gli stabilimenti balneari sostengono i costi per l’innalzamento della duna invernale in spiaggia, che protegge tutte le città costere dalle mareggiate.
- Sui canoni demaniali vengono applicate imposte regionali e comunali che vanno ad aumentare la cifra complessiva.
Per questo, qualsiasi discorso che se la prende contro i canoni bassi deve essere respinto al mittente, finché non prende in considerazione anche queste ulteriori spese.
Non è vero che il 60% delle coste italiane è occupato dagli stabilimenti balneari
C’è un altro passaggio nel comunicato di Legambiente che è del tutto falso, quando cioè l’associazione afferma che «nella penisola sono ben 52.619 le concessioni demaniali marittime, di cui 27.335 sono per uso “turistico ricreativo” e le altre distribuite su vari utilizzi, da pesca e acquacoltura a diporto e produttivo (dati del MIT). Si tratta di 19,2 milioni di metri quadri di spiagge sottratti alla libera fruizione. Se si considera un dato medio (sottostimato) di 100 metri lineari per ognuna delle 27mila concessioni esistenti, si può stimare che oltre il 60% delle coste sabbiose in Italia è occupato da stabilimenti balneari».
Legambiente prende una sua “stima“, quella del 60% di spiagge occupate basata su una media del tutto ipotetica di 100 metri lineari per stabilimento, come un dato veritiero e ne fa il cuore del suo attacco. E per questo non risulta credibile.
Non esistono, in Italia, statistiche ufficiali di nessun tipo sulla percentuale di occupazione delle coste, che è anzi un altro tema di cui si dibatte molto a causa della controversa applicazione della direttiva Bolkestein (la famigerata legge che vorrebbe imporre le evidenze pubbliche delle spiagge solo se “la risorsa è limitata”). Perciò quelle di Legambiente sono stime da bar, che stupiscono dato che provengono da un’autorevole associazione ambientalista.
Anche il dato sulle oltre 27mila concessioni risulta manipolato: in questo caso la statistica è vera e proviene dal Ministero dell’interno; tuttavia su queste 27mila concessioni instistono poco più di 7500 stabilimenti balneari, come è emerso lo scorso anno da uno studio della Camera di commercio. Se utilizzassimo lo stesso criterio con cui Legambiente fa le sue stime, potremmo dire che, dal momento che la lunghezza delle coste italiane è di 7.456 km, in Italia c’è circa uno stabilimento balneare ogni chilometro, il che ridimensionerebbe la portata dei dati diffusi dall’associazione.
Gli stabilimenti balneari sono amici dell’ambiente
Ci sembra che dietro al comunicato di Legambiente – e dietro a ogni rilancio fatto da giornali e tv – ci sia soltanto la volontà di attaccare la categoria degli imprenditori balneari, allo scopo di indebolirli agli occhi dell’opinione pubblica in un delicato momento per il settore. Questi articoli emergono puntualissimi ogni anno nel mese di agosto, quando più della metà degli italiani è in vacanza al mare, e quindi “fanno notizia” molto facilmente. Ma essendo basati su dati falsi e parziali, per chi fa giornalismo con serietà occorre rispondere con la verità.
Ma ciò che è ancora più strano è che questa volta l’attacco arrivi da un’associazione ambientalista come Legambiente, che porta avanti numerosi progetti insieme alle associazioni locali degli imprenditori balneari (si pensi alle Marine del Parco di Viareggio o ai Lidi ecosostenibili in Cilento). Trovandosi in prima linea sulla spiaggia, in generale gli imprenditori balneari svolgono un ruolo molto importante per la tutela dell’ambiente costiero, e per questo ci sembra assurdo che sia un’associazione ambientalista a prenderli di mira.
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