La data del 14 luglio è un ricordo indelebile nelle menti degli imprenditori balneari italiani. Nel 2016, esattamente un anno fa, la Corte di giustizia europea dichiarò l’illegittimità delle proroghe generalizzate con cui lo Stato italiano aveva gestito le concessioni balneari da quando aveva abrogato il rinnovo automatico per uscire da una procedura di infrazione e adeguarsi alla Bolkestein, la famigerata direttiva europea sulla liberalizzazione dei servizi che apre alle evidenze pubbliche delle concessioni demaniali marittime.
Quello della sentenza fu un momento di elevata tensione nella categoria dei balneari: nel bel mezzo della stagione estiva, anche se l’esito negativo era stato anticipato a febbraio dall’avvocato generale della Corte Ue (vedi notizia), la pronuncia arrivò come un fulmine a ciel sereno, ripresa da tutti i media generalisti che spacciavano gli stabilimenti balneari di tutta Italia come “abusivi“. Venendo a mancare la proroga al 31 dicembre 2020 su cui si basava la sentenza, infatti, la precedente scadenza risaliva al 31 dicembre 2015. Ovvero, era già passata.
A un anno esatto da quel tragico momento che ha sancito il fallimento delle precedenti politiche di gestione delle concessioni balneari, vale la pena ripercorrere i passaggi che la categoria ha affrontato negli ultimi dodici mesi. Da allora, infatti, molte cose sono cambiate: appena una settimana dopo la sentenza, il governo italiano grazie al lavoro dei deputati Sergio Pizzolante e Tiziano Arlotti ha approvato una misura passata come “legge salva-spiagge” che rende valide tutte le concessioni in essere, nonostante la sentenza negativa (vedi notizia). E il 27 gennaio scorso, senza nessun annuncio preventivo, il ministro agli affari regionali Enrico Costa ha presentato un disegno di legge-delega per il riordino delle spiagge (vedi notizia) che istituisce le evidenze pubbliche dopo un “adeguato periodo transitorio” la cui entità è ancora da definire. Il ddl è attualmente in fase di approvazione alla Camera, dove le commissioni VI e X stanno vagliando quasi duecento emendamenti (vedi notizia) prima del voto e del passaggio al Senato, e solo i successivi decreti attuativi potranno definire gli aspetti più concreti della riforma come appunto la durata del periodo transitorio e i meccanismi di calcolo degli indennizzi per chi perderà la propria impresa.
Ma l’approvazione di questa legge non è affatto sicura: il prossimo febbraio l’attuale legislatura arriverà alla sua scadenza naturale e non è ancora chiaro se una materia così complessa riuscirà a essere riformata in tempo (la legge-delega, per sua natura, è strettamente legata al governo in carica). Oltretutto, la categoria dei balneari è profondamente spaccata, con alcune sigle sindacali che vogliono contribuire a migliorare e approvare questo testo per terminare l’annosa questione, mentre altre che rigettano il ddl in toto e ne chiedono lo stralcio.
In questo vuoto normativo, il settore balneare sta andando avanti con le sentenze dei tribunali che stanno gettando le basi al posto del legislatore. Lo scorso maggio il Tar della Lombardia ha dichiarato l’illegittimità anche della legge salva-spiagge, vedendolo come un rinnovo generalizzato al pari della proroga e dunque in contrasto con le norme Ue (vedi notizia), e molti altri tribunali hanno cominciato persino a disapplicare la proroga al 2020. Un anno dopo la sentenza della Corte di giustizia europea, il settore balneare sembra insomma nella confusione più totale e con il grande bisogno di una legge favorevole che faccia ripartire gli investimenti. In questa situazione di precarietà ci sono non solo le spiagge che meritano un assetto normativo chiaro per essere gestite al meglio, ma soprattutto migliaia di imprenditori che chiedono la garanzia del proprio lavoro e dei propri diritti.
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