Nell’ottica di offrire un contributo al dibattito sull’auspicata riforma del demanio marittimo, con il presente lavoro si vuole soffermare l’attenzione del legislatore e degli operatori del settore su uno dei criteri direttivi su cui la prossima riforma dovrà necessariamente confrontarsi: il riconoscimento e la tutela degli investimenti, dei beni aziendali e del valore commerciale degli stabilimenti balneari. La previsione, nei disegni di legge sino a oggi abortiti, dei principi su cui improntare la riforma – quali il rispetto della concorrenza, della libertà di stabilimento, della garanzia dell’esercizio e sviluppo delle attività imprenditoriali – impongono infatti un’indagine che ricostruisca, in termini di compatibilità, tali principi con il diritto comunitario e internazionale nonché con le disposizioni legislative vigenti in materia.
La natura delle opere costruite sui beni del demanio marittimo
Secondo la costante interpretazione giurisprudenziale, il diritto del concessionario di beni demaniali sulle opere costruite è qualificabile in termini di proprietà superficiaria. Il concetto è ben esplicitato nella sentenza della Corte costituzionale n. 29 del 2017, ove la Corte afferma che «al fine di stabilire la proprietà statale dei beni di difficile rimozione edificati su suolo demaniale marittimo in concessione, è determinante la scadenza della concessione, essendo questo il momento in cui il bene realizzato dal concessionario acquista la qualità demaniale. I criteri di calcolo dei canoni commisurati ai valori di mercato, in quanto riferiti alle opere realizzate sul bene e non solo alla sua superficie, risultano applicabili, quindi, soltanto a quelle che già appartengano allo Stato e che già possiedano la qualità di beni demaniali. Nelle concessioni di opere da realizzare a cura del concessionario, ciò può avvenire solo al termine della concessione, e non già nel corso della medesima».
La Corte costituzionale prosegue ancora affermando: «La stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato ha riconosciuto che «non tutti i manufatti insistenti su aree demaniali partecipano della natura pubblica – e dell’inerente qualificazione demaniale – della titolarità del sedime, poiché solo ad alcuni, nella stessa dizione della legge, appartiene la natura pertinenziale. Per gli altri (che la legge indica come impianti di difficile o non difficile rimozione: definizione che appare inadatta a stabilire una differenza di categoria, dato che anche gli immobili pertinenziali sono o possono essere, di per sé, rimovibili con facilità o con difficoltà) si deve allora riconoscere, per esclusione, la qualificazione di cose immobili di proprietà privata fino a tutta la durata della concessione, evidentemente in forza di un implicito diritto di superficie» (Consiglio di Stato, sez. VI, 13 giugno 2013, n. 3308; nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, 13 giugno 2013, n. 3307 e Consiglio di Stato, sez. VI, 10 giugno 2013, n. 3196; da ultimo Tar Toscana n. 220/2020 del 20.02.2020. In tal senso anche Tar Toscana n. 328/2015 del 27.02.2015). Ciò è vero, tanto che l’art. 41 del Codice della navigazione facoltizza il concessionario a costituire ipoteca sulle opere da lui costruite sui beni demaniali.
Orbene, ai fini di un corretto inquadramento del diritto soggettivo di cui sono titolari i concessionari demaniali, è necessario partire dalla definizione che, ai sensi dell’art. 952 del Codice civile, si dà del concetto di proprietà superficiaria. Ai sensi della richiamata norma: «Il proprietario può costituire il diritto di fare e mantenere al disopra del suolo una costruzione a favore di altri, che ne acquista la proprietà . Del pari può alienare la proprietà della costruzione già esistente, separatamente dalla proprietà del suolo». Nella superficie, dunque, il proprietario costituisce a favore di un terzo il diritto di fare e di mantenere una costruzione al di sopra del suolo, o aliena la proprietà di una costruzione già esistente. La proprietà della costruzione viene dunque staccata dalla proprietà del suolo, contro il principio generale dell’appartenenza al proprietario del suolo di tutto ciò che vi accede, opere o piantagioni o costruzioni: omne quod inaedificatur solo cedit (art. 934).
Il diritto del superficiario, una volta che la costruzione sia fatta (e nel caso di diritto su una costruzione già eseguita), può configurarsi come un vero diritto di proprietà; del resto si parla di proprietà superficiaria che coesiste con la proprietà del suolo spettante a un soggetto diverso. La superficie è situazione che qualifica un particolare modello di proprietà , appunto la “proprietà superficiaria”, caratterizzata dalla circostanza che si estende non più verticalmente ma per via orizzontale. Tant’è che in queste, come in altre situazioni, si discorre di “proprietà orizzontale”.
Il diritto sulla costruzione e il diritto di edificare, ad aedificandum, pur avendo come effetto lo stesso risultato, cioè l’acquisto della proprietà sulla costruzione su suolo altrui, configurano situazioni diverse. Se la costruzione già esiste, ciò che si costituisce è un diritto di proprietà sull’opera; se, per contro, il proprietario attribuisce la possibilità di costruire sul proprio suolo a un terzo, questi acquista prima il diritto di edificare e, una volta eseguita l’opera, la proprietà sull’edificio. La differenza tra le due ipotesi deriverebbe, secondo la giurisprudenza e parte della dottrina, dal fatto che, allorquando si acquista il diritto di proprietà sulla costruzione, l’acquisto sarebbe a titolo derivato, mentre se si acquista il diritto a edificare, la proprietà sulla costruzione si costituirebbe a titolo originario: da questa angolazione sarebbe da distinguere la cosiddetta “proprietà separata” dalla vera e propria “proprietà superficiaria”. In realtà il legislatore ha sancito un’unica differenza: se si è acquistato un diritto di proprietà, il diritto è imprescrittibile; se, invece, si è acquistato un diritto di edificare (non immediatamente la proprietà) e non si edifica nel termine di vent’anni, il diritto stesso si prescrive.
L’istituto, già noto in diritto romano, ebbe più ampio sviluppo nel diritto intermedio, sia per l’esigenza di legittimare le costruzioni fatte su aree di proprietà ecclesiastica, cioè su un fondo inalienabile, sia per influsso dell’antico diritto tedesco, il quale dava maggior valore al lavoro del costruttore che al diritto del proprietario del fondo. In particolare una siffatta rivalutazione dell’istituto aiuta a riscoprirne, in sostanza, le lontane radici, poiché la superficie, con l’abbandonare i principi del diritto romano dell’unicità del dominio sul suolo e sulle costruzioni, servì in situazioni in cui voleva riconoscersi e conservarsi sul suolo un diritto eminente di collettività particolari o di enti pubblici o della Chiesa, al tempo stesso garantendo al titolare della costruzione la pienezza dei diritti riconosciuti alla proprietà; e ciò fu tipico della mentalità e delle idee dell’età medievale.
Ricostruita in questi termini la definizione del diritto di cui sono titolari i concessionari demaniali che hanno edificato sul bene, la suprema Corte di cassazione interviene a specificarne anche il valore. In particolare con sentenza 00/6656, la Corte afferma che tale diritto ha contenuto economicamente valutabile a prescindere dal suo esercizio, rimesso alla volontà del superficiario: il rapporto tende alla formazione di un diritto di proprietà a vantaggio del concessionario su quella che sarà la costruzione. Il diritto di superficie di cui sono titolari i concessionari viene considerato come diritto soggettivo a natura reale (con obblighi accessori) di godimento su suolo altrui.
La Corte di cassazione interviene anche a chiarire la natura del diritto di superficie quanto questi sia conferito da un ente pubblico. In questo caso, facendo espresso riferimento al conferimento del diritto di superficie su un bene appartenente al patrimonio o su di un bene demaniale (concessioni su demanio marittimo, aeronautico, stradale; concessioni su demanio comunale e provinciale; concessione di aree forestali, miniere e giacimenti di idrocarburi), specificando che l’atto faccia sorgere un vero e proprio diritto soggettivo (Cass. 03/1134).
Qualificato in termini di proprietà superficiaria il diritto di cui sono titolari concessionari demaniali marittimi, bisogna adesso indagare la compatibilità di questo diritto con la normativa comunitaria ai fini della possibilità di prevedere, nella normativa di riordino delle concessioni demaniali, un indennizzo a favore dei concessionari uscenti e, se sì, in che termini, attesa la tutela accordata dalla nostra Costituzione all’art. 42 e alle disposizione dell’art. 49 del Codice della navigazione.
La tutela della proprietà privata nella normativa comunitaria e il rapporto con l’art. 49 del Codice della navigazione
I trattati istitutivi dell’Unione europea lasciano sul piano di autonomia degli Stati membri la disciplina organica dell’istituto della proprietà privata. In particolare l’art. 345 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea afferma espressamente che «i trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri». Purtuttavia, nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea il concetto di proprietà privata viene posto in relazione alla funzione cui possono assolvere quei beni nell’esercizio di attività economiche e dunque in termini di lesione di beni in funzione del libero esercizio delle proprie attività economiche. Il che un po’ richiama le ragioni di applicabilità della direttiva Bolkestein alle concessioni demaniali marittime1.
In relazione all’oggetto dell’indagine che interessa in questa sede, alle sue implicazioni rispetto alla proprietà delle opere insistenti sul demanio e la vista correlazione con le attività economiche svolte nel mercato comune europeo, vengono in rilievo due articoli previsti dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea: l’art. 49 e l’art. 56, fermo restando, per quanto si dirà, l’importanza dell’art. 54 relativo alle implicazioni in relazione alla tutela della proprietà privata da parte della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
L’articolo 49, in particolare, è collocato nel titolo IV dedicato alla libera circolazione delle persone dei servizi e dei capitali ed è rubricato al capo 2 relativo al “diritto di stabilimento”. La norma reca la seguente definizione: «Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro sul territorio di un altro Stato membro. La libertà di stabilimento importa l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell’articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali». L’articolo 56 dal canto suo è collocato al capo 3 rubricato “Servizi” e dispone, per quello che interessa in questa sede, che «nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione».
Come noto agli operatori del settore, la disposizione riportata nell’articolo 49 del Codice della navigazione rubricato “Devoluzione delle opere non amovibili” afferma: «Salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell’autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato. In quest’ultimo caso, l’amministrazione, ove il concessionario non esegua l’ordine di demolizione, può provvedervi a termini dell’ articolo 54».
È importante indagare la legittimità e la compatibilità dei citati articoli 49 e 56 del TFUE con una norma nazionale che preveda il riconoscimento del diritto di proprietà delle opere edificate sulle aree in concessione ai fini della previsione di un indennizzo e la previsione del riconoscimento del valore commerciale dell’azienda intesa come “stabilimento balneare”. L’indagine da condurre, che ha lo scopo di verificare la compatibilità di una normativa nazionale che preveda un indennizzo per la proprietà dei beni insistenti sul demanio marittimo sino a giungere al riconoscimento del valore commerciale dell’azienda “stabilimento balneare”, prende le mosse dal seguente quesito: se i richiamati articoli 49 e 56 del TFUE debbano essere interpretati, in sede di redazione dell’auspicata riforma del demanio marittimo, nel senso che essi ostino o meno a una disposizione nazionale, che imponga al concessionario di cedere a titolo non oneroso, all’atto della cessazione dell’attività, l’uso dei beni materiali e immateriali di proprietà che costituiscono l’azienda intesa come “stabilimento balneare”.
Per costante giurisprudenza, devono considerarsi restrizioni alla libertà di stabilimento e/o alla libera prestazione di servizi tutte le misure che vietino, ostacolino o rendano meno interessante l’esercizio delle libertà garantite dagli articoli 49 TFUE e 56 TFUE2. Alla luce della richiamata giurisprudenza, dunque, l’articolo 49 CE impone non solo l’eliminazione di qualsiasi discriminazione nei confronti del prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro in base alla sua cittadinanza, ma anche la soppressione di qualsiasi restrizione, anche qualora essa si applichi indistintamente ai prestatori nazionali e a quelli degli altri Stati membri, quando sia tale da vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro, ove fornisce legittimamente servizi analoghi. In tale ottica, la Corte ha inoltre dichiarato che l’articolo 49 CE osta all’applicazione di qualsiasi normativa nazionale che abbia l’effetto di rendere la prestazione di servizi tra Stati membri più difficile della prestazione di servizi puramente interna a uno Stato membro.
Alla luce delle considerazioni esposte, si può affermare che una disposizione nazionale come quella contenuta nell’articolo 49 del Codice della navigazione, la quale imponga al concessionario, allorquando venga a cessare la concessione, la devoluzione delle opere non amovibili costruite sulla zona demaniale allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, ivi compresa l’ipotesi in cui tale cessazione avvenga per il semplice fatto della scadenza del termine di concessione, può rendere meno allettante l’esercizio di tale attività. Infatti il rischio per un’impresa di dover cedere, senza contropartita economica, l’uso dei beni in suo possesso, può impedire a detta impresa di trarre profitto dal proprio investimento. Dunque si può affermare con un elevato grado di certezza che l’articolo 49 del Codice della navigazione e qualsiasi norma che in sede di riforma del diritto demaniale non preveda una contropartita economica, è incompatibile con il diritto comunitario in quanto costituisce una restrizione delle libertà garantite dagli articoli 49 TFUE e 56 TFUE.
La Corte di giustizia europea è intervenuta anche su un aspetto interessante proprio specifico della fattispecie riguardante le concessioni demaniali, e cioè sulla proporzionalità della restrizione delle libertà garantite dagli articoli 49 TFUE e 56 TFUE. Ebbene la proporzionalità della restrizione, quando la cessazione dell’attività avviene per il semplice fatto della scadenza della concessione, è stata ritenuta violata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, proprio nell’ipotesi in cui non preveda un indennizzo riguardante il valore commerciale dell’azienda (CGUE causa C-375/14, 28 gennaio 2016).
La tutela della proprietà privata nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo
Acclarata l’incompatibilità dell’art. 49 del Codice della navigazione rispetto agli articoli 49 e 56 del TFUE e inquadrato in termini di proprietà privata il diritto dei concessionari sui beni insistenti sulla concessione, la categoria può usufruire anche della tutela apprestata dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Infatti, l’art. 1 prot. 1 allegato alla Cedu così recita: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale (primo comma). Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende (secondo comma)».
La disposizione così citata, all’ultimo periodo, richiama una sorta di identità tra la natura cui sono preordinati ad assolvere funzione i beni demaniali qualificando in termini di interesse generale e l’uso dei beni regolato da parte dei singoli Stati. Ed è proprio sul concetto di proporzionalità che la Corte europea di Strasburgo, già a partire dal 1982 con la sentenza Sporrong e Lönnroth vs Svezi (serie A n. 52, pag. 24, par. 61 del 23 settembre 1982) interviene affermando la necessità di un contemperamento, definito in termini di «giusto equilibrio», tra perseguimento dell’interesse pubblico e salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo. A tal proposito, la richiamata sentenza parla di un «ragionevole rapporto di proporzionalità» fra il sacrificio richiesto al privato per il perseguimento dell’interesse pubblico inquadrabile in «una somma di denaro ragionevolmente correlata al valore del bene». Ed è proprio nella richiamata pronuncia che per la prima volta la Corte europea dei diritti dell’uomo ritiene che possa ritenersi rispettoso del «giusto equilibrio», inteso in termini di proporzionalità, «un indennizzo integrale» pari – si badi bene – al «valore di mercato».
Significative, in tema di riconoscimento del valore di mercato del bene, sono a tal proposito le sentenze dettate in materia di espropriazione. In particolare la Corte europea di Strasburgo ha sempre censurato la violazione da parte dell’Italia dell’art. 1 prot. 1 allegato alla Cedu ogni qual volta ha tentato di discostarsi dal criterio di valutazione del “valore di mercato” dei beni: con la sentenza resa nel processo Broniowski vs Polonia Grande Camera del 22 giugno 2004, la Corte ha censurato il carattere strutturale della lesione del diritto di proprietà e tali principi sono stati confermati con la sentenza Scordino vs Italia del 29 marzo 2006, qualificando le violazioni perpetrate dal nostro Stato alla normativa Cedu in termini di “violazioni di sistema”, da cui deriva la violazione del diritto di proprietà. In tale contesto la “raccomandazione” rivolta dai giudici di Strasburgo è quella di adottare ogni misura ritenuta utile, anche retroattivamente, per garantire la realizzazione rapida ed effettiva del diritto di proprietà. Inoltre tale pronuncia sancisce che il “valore commerciale” del bene di proprietà privata non può essere sacrificato sull’altare della salvaguardia dell’interesse pubblico.
La direttiva Bolkestein e le pronunce della Corte costituzionale sul riconoscimento della legittimità del valore commerciale dell’azienda
La direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno e meglio nota come “direttiva Bolkestein”, al considerando n. 62 riconosce la necessità di «garantire l’ammortamento degli investimenti e la remunerazione equa dei capitali investiti» dal gestore uscente. Nel dettaglio, la disposizione è formulata nei termini che seguono: «Nel caso in cui il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche, è opportuno prevedere una procedura di selezione tra diversi candidati potenziali, al fine di sviluppare, tramite la libera concorrenza, la qualità e le condizioni di offerta di servizi a disposizione degli utenti. Tale procedura dovrebbe offrire garanzie di trasparenza e di imparzialità e l’autorizzazione così rilasciata non dovrebbe avere una durata eccessiva, non dovrebbe poter essere rinnovata automaticamente o conferire vantaggi al prestatore uscente. In particolare, la durata dell’autorizzazione concessa dovrebbe essere fissata in modo da non restringere o limitare la libera concorrenza al di là di quanto è necessario per garantire l’ammortamento degli investimenti e la remunerazione equa dei capitali investiti. La presente disposizione non dovrebbe ostare a che gli Stati membri limitino il numero di autorizzazioni per ragioni diverse dalla scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche. Le autorizzazioni in questione dovrebbero comunque ottemperare alle altre disposizioni della presente direttiva relative ai regimi di autorizzazione».
Inoltre la direttiva Bolkestein, all’art. 12, comma 3, attribuisce agli Stati la possibilità di tenere conto, nell’ambito delle procedure di selezione, di «motivi imperativi di interesse generale». La disposizione è formulata nei termini che seguono: «Fatti salvi il paragrafo 1 e gli articoli 9 e 10, gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario».
Tuttavia la Corte costituzionale, con sentenza n. 222 del 23 ottobre 2020 (presidente Morelli, redattore Barbera), nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 54, commi 2, 3, 4 e 5 della legge della Regione Veneto 4 novembre 2002, n. 33 (“Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo”), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto nel procedimento vertente tra la Bipark srl e il Comune di San Michele al Tagliamento3, ha ancora una volta mancato l’occasione di pronunciarsi sulla possibilità di far rientrare fra i “motivi di interesse generale” previsti, come si deduce sia dal considerando 62 che dall’articolo 12 della direttiva Bolkestein, anche la remunerazione dei concessionari uscenti, onde evitare un ingiustificato arricchimento dei subentranti. La Corte costituzionale ha concluso per l’impossibilità, attesa la mancata censura da parte della Regione, di disporre la restituzione degli atti al giudice a quo, onde consentirgli di interpellare in via pregiudiziale la Corte di giustizia dell’Unione europea, «chiedendo se gli artt. 49 e 56 TFUE e l’articolo 12 della Direttiva servizi ostino a una normativa nazionale o regionale che riconosca un’adeguata remunerazione dei capitali investiti dal concessionario uscente, configurando questi un “indebito vantaggio” al prestatore uscente […] ovvero se questo genere di misure sia consentito dal diritto sovranazionale», né quella, avanzata in via alternativa, di rivolgere il medesimo interpello onde accertare la possibile contrarietà al diritto dell’Unione europea dell’art. 49 Cod. Nav., nella parte in cui esclude ogni rimborso a favore del concessionario uscente che abbia realizzato opere inamovibili destinate a essere acquisite al demanio. Ciò in quanto non sarebbe consentito alla Regione di intervenire legislativamente sull’indennizzo quando il legislatore nazionale non si sia avvalso della prerogativa riconosciuta dell’Unione europea di adottare garanzie per l’ammortamento degli investimenti effettuati dal gestore uscente, tenuto conto che, ai fini di tale attuazione, assuma rilievo il riparto costituzionale delle competenze (art. 117, quinto comma della Costituzione italiana).
Come noto, in questo giudizio di legittimità costituzionale le norme censurate attengono alla disciplina delle concessioni del demanio marittimo a finalità turistico-ricreative, tra cui gli stabilimenti balneari, e più in particolare alla regolamentazione della procedura comparativa che sovraintende al rilascio, alla modifica e al rinnovo delle concessioni. In dettaglio, le dette norme prevedono:
- che la procedura di rilascio di nuove concessioni sia subordinata al pagamento di un indennizzo in favore del concessionario uscente (comma 2);
- che, a tale scopo, il Comune competente debba acquisire dall’originario concessionario una «perizia di stima asseverata di un professionista abilitato da cui risulti l’ammontare del valore aziendale dell’impresa insistente sull’area oggetto della concessione», pubblicandola poi all’interno dell’avviso di gara (comma 3);
- che le domande di nuova concessione siano corredate «a pena di esclusione dalla procedura comparativa, da atto unilaterale d’obbligo in ordine alla corresponsione, entro trenta giorni dalla comunicazione di aggiudicazione della concessione, di indennizzo», e che il rilascio della concessione sia condizionato al pagamento dell’indennizzo, in mancanza del quale si procederà all’aggiudicazione «nei confronti del soggetto utilmente collocato in graduatoria e fino all’esaurimento della stessa» (comma 4);
- che la misura dell’indennizzo al gestore uscente sia pari al 90% dell’ammontare del valore risultante dalla citata perizia di stima (comma 5).
Fermo restando quanto si dirà in ordine agli “indizi” già forniti dalla Corte in ordine alla legittimità di una normativa interna tesa al riconoscimento di un indennizzo per i concessionari uscenti, è noto che all’esito del richiamato giudizio, la Corte costituzionale ha confermato la competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza. La Consulta, infatti, ha avuto modo di confermare come la disciplina delle concessioni sui beni demaniali marittimi investa diversi ambiti materiali, attribuiti alla competenza sia statale che regionale, ma anche la particolare rilevanza, quanto ai criteri e alle modalità di affidamento delle concessioni, che assumono i principi della libera concorrenza e della libertà di stabilimento previsti dalla normativa comunitaria e nazionale – principi corrispondenti ad ambiti riservati alla competenza esclusiva statale dall’art. 117, secondo comma, lettera e) della Costituzione.
Tali aspetti, già affrontati con le sentenze n. 86/2019, n. 40/2017 e n. 213/2011, in realtà portano il giudice costituzionale a porsi, a parere dello scrivente, in maniera critica rispetto alla compatibilità di una previsione della normativa nazionale che riconosca un indennizzo ai concessionari uscenti, almeno inteso quale riconoscimento del valore commerciale dell’azienda.
Il tema era stato già precedentemente affrontato con la sentenza n. 157/2017 nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettere a), c) e d) della legge della Regione Toscana n. 31 del 9 maggio 2016 (“Disposizioni urgenti in materia di concessioni demaniali marittime”), la quale non aveva mancato di sottolineare come tale meccanismo, all’evidenza, influiva sulle possibilità di accesso al mercato di riferimento e sull’uniforme regolamentazione dello stesso, potendo costituire, per le imprese diverse dal concessionario uscente, un disincentivo alla partecipazione al concorso che portava all’affidamento.
Nel richiamato giudizio, con una disposizione analoga a quella introdotta dalla Regione Veneto e che ha condotto all’emanazione della sentenza n. 222 del 23 ottobre 2020, la Regione Toscana aveva previsto che in caso di area già oggetto di concessione, l’ente gestore acquisisse il valore aziendale dell’impresa insistente su tale area attestato da una perizia giurata di stima redatta da professionista abilitato acquisita a cura e spese del concessionario richiedente il rilascio della concessione ultrasessennale. Al concessionario uscente sarebbe stato riconosciuto il diritto a un indennizzo, da parte del concessionario subentrante, pari al 90% del valore aziendale dell’impresa insistente sull’area oggetto della concessione, attestato dalla perizia giurata, da pagarsi integralmente prima dell’eventuale subentro.
Nel giudizio de quo appare chiara la volontà dell’allora governo, laddove senza mezzi termini mette in evidenza gli aspetti di contrarietà della previsione contenuta nella legge regionale della Toscana con il diritto dell’Unione europea e, in particolare, con il citato art. 12 della direttiva Bolkestein avuto riguardo all’esigenza, dettata dal paragrafo 2 di tale articolo, di evitare l’attribuzione di vantaggi al prestatore uscente. Tale disposizione, tra l’altro, è stata trasposta nell’ordinamento interno dall’art. 16, comma 4 del decreto legislativo n. 59 del 26 marzo 2010 (“Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno”), in forza del quale, nell’esercizio della competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza, aveva portato il legislatore statale a prevedere che «nei casi di cui al comma 1» – ossia laddove il numero di titoli autorizzatori disponibili per una determinata attività di servizi fosse limitato – «il titolo è rilasciato per una durata limitata e non può essere rinnovato automaticamente, né possono essere accordati vantaggi al prestatore uscente o ad altre persone, ancorché giustificati da particolari legami con il primo». La norma dunque viene letta in contrasto con l’esigenza di garantire la parità di trattamento e l’uniformità delle condizioni del mercato sull’intero territorio nazionale.
L’approccio ermeneutico della Corte costituzionale è da subito risolto in termini di incompatibilità con la tutela della concorrenza, senza alcun richiamo alla tutela della proprietà privata dei beni come abbiamo visto assicurata sia dalla Corte di giustizia europea che dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il giudice costituzionale, infatti, afferma come sia di chiara evidenza che un siffatto obbligo, come il riconoscimento di un indennizzo parametrato al valore commerciale dell’azienda, cui risulti condizionato il subentro al concessionario uscente, influisca sensibilmente sulle prospettive di acquisizione della concessione, rappresentando una delle componenti del costo dell’affidamento. Dunque la previsione dell’indennizzo, subordinando il subentro nella concessione all’adempimento del suindicato obbligo, incide per la Corte costituzionale sulle possibilità di accesso al mercato di riferimento e sull’uniforme regolamentazione dello stesso, potendo costituire, per le imprese diverse dal concessionario uscente, un disincentivo alla partecipazione al concorso che porta all’affidamento.
La stessa sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 23 ottobre 2020, sulla stessa scia tutt’altro che promettente, scorge già gli indizi di incompatibilità della previsione di un indennizzo nella normativa di riordino delle concessioni demaniali. Infatti, con richiamo espresso alla precedente pronuncia n. 157/2017, afferma in maniera identica come il subentro nel rapporto concessorio condizionato al pagamento di un indennizzo in favore del concessionario uscente influisca sulle possibilità di accesso al mercato di riferimento e sull’uniforme regolamentazione dello stesso, potendo costituire, per le imprese diverse dal concessionario uscente, un disincentivo alla partecipazione al concorso che conduca all’affidamento.
La strada è stata in realtà aperta dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto con l’ordinanza di remissione al punto 5.2 laddove, nel valutare come la previsione di un indennizzo costituirebbe violazione dell’art. 117, comma secondo, lettera l) della Costituzione italiana, interessando anche la materia dell’ordinamento civile, potrebbe essere ricondotta al «principio civilistico del divieto di arricchimenti ingiustificati» […], «pur inserendosi all’interno della disciplina pubblicistica di una procedura ad evidenza pubblica, atterrebbe al rapporto – di schietto sapore privatistico – tra due soggetti (il gestore uscente e il subentrante) disciplinato dalle comuni regole civilistiche».
Il principio civilistico del divieto di arricchimenti ingiustificati quale chiave di lettura per giungere al riconoscimento dell’indennizzo per la proprietà dei beni
Orbene, per quanto interessa in questa sede, sia il considerando 68 che l’art. 12 della direttiva Bolkestein, con una definizione pressocché identica, parlano dell’impossibilità di «conferire vantaggi al prestatore uscente» e di non «accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami».
Una prima considerazione spontanea che verrebbe a ogni lettore sarebbe la seguente: è pur vero che non bisogna conferire vantaggi al prestatore uscente, ma tali vantaggi non bisognerebbe conferirli neanche al prestatore subentrante. Ed essendo oggetto della presente indagine la ricostruzione, in termini di compatibilità, delle redigende disposizioni con il diritto comunitario e internazionale e il coordinamento formale e sostanziale delle disposizioni legislative vigenti in materia, non si può non partire, al fine di costruire in termini di compatibilità con i richiamati principi comunitari, da una normativa nazionale che preveda il “giusto” riconoscimento del valore economico dei “beni” insistenti sul demanio marittimo. E infatti, in caso contrario, l’ipotesi sarebbe proprio quella dell’ingiustificato arricchimento.
D’altronde, ai sensi dell’art. 2041 del Codice civile, «chi, senza una giusta causa si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale». Trattasi di una norma di chiusura dell’ordinamento che richiede una serie di elementi: innanzitutto un fatto lecito, naturale o umano; inoltre, il fatto deve dar causa all’arricchimento di un soggetto e correlativamente alla diminuzione patrimoniale di un altro. Il nesso tra danno e arricchimento deve essere immediato e diretto ed è necessario è che l’arricchimento sia attuale al tempo della domanda e che consista in un’effettiva attribuzione patrimoniale la quale, si badi bene, si può anche esprimere come mero risparmio di spesa. Il correlativo impoverimento può consistere tanto nella perdita di un elemento patrimoniale, quanto nella diminuzione del suo valore per effetto dell’uso della cosa da parte di terzi, e comprende soltanto il danno emergente, inteso in termini di perdita effettiva, non anche il mancato guadagno. Quest’ultimo aspetto è importante per quanto si dirà sotto il profilo dell’indagine cui siamo chiamati in questa sede.
Del principio enunciato la legge fa applicazione in diverse norme4, ma non si può dire che quelle previsioni esauriscano tutte le ipotesi di ingerenza nella sfera giuridica altrui, o di esecuzione di una prestazione non dovuta, o di uso di una cosa altrui senza titolo. Sono questi i fatti da cui deriva la diminuzione patrimoniale di un soggetto con arricchimento corrispondente di un altro, vuoi in forma di un positivo incremento del patrimonio, vuoi di un risparmio di spese, e senza giustificazione causale del movimento di beni o di utilità dall’una all’altra sfera giuridica.
L’arricchimento può essere sia qualitativo che quantitativo. Può consistere tanto in un incremento patrimoniale quanto in un risparmio di spesa, così come, più in generale, in una mancata perdita economica. Nel sistema tuttavia, e più ancora nelle applicazioni della giurisprudenza, l’istituto dell’arricchimento ingiusto è usato con molteplici cautele. Il principio invocato per il riequilibrio tra vantaggio e corrispondente non giustificato depauperamento è un principio antico: natura aequum est neminem cum alterius detrimento fieri locupletiorem. L’ingiustificato arricchimento è fonte di un’obbligazione indennitaria che tende a reintegrare la diminuzione patrimoniale. Proprio questa normativa è la chiave di lettura per far rientrare in termini di compatibilità la previsione di un indennizzo per il concessionario balneare uscente.
L’indennizzo previsto dall’art. 2041 del Codice civile e le considerazioni generali del governo e della Corte costituzionale sulla sua compatibilità con i principi comunitari
L’indennizzo previsto dall’art. 2041 del Codice civile va liquidato con riferimento ai valori di mercato, attualizzati al tempo della domanda nella misura della minor somma tra perdita effettivamente subita e l’arricchimento conseguito. L’entità dell’arricchimento configura il limite di indennizzabilità della diminuzione patrimoniale.
Tutte le teorie muovono essenzialmente dall’esigenza di assicurare una certa corrispettività dei sacrifici e dei vantaggi. Ai fini dell’indennizzo dovuto per l’arricchimento senza causa, la giurisprudenza afferma che vada considerata solo la diminuzione patrimoniale subita dal soggetto e non anche il lucro cessante, che è altra componente separata e distinta dal danno patrimoniale complessivamente subito. In quest’ultima considerazione è individuabile uno dei motivi per i quali, a parere dello scrivente, ad oggi la Corte costituzionale e anche il legislatore nazionale non abbiano mai riconosciuto la legittimità di una norma che ristori il concessionario uscente in termini di valore commerciale dell’azienda. La giurisprudenza della suprema Corte di cassazione (cfr. Cass. 78/3564) ha da sempre affermato infatti che l’entità dell’indennizzo consisterebbe nella minor somma tra il valore della diminuzione patrimoniale sofferta e la misura dell’arricchimento altrui.
Il governo, nel costituirsi nei richiamati giudizi di legittimità costituzionale, ha con una certa apertura affermato che il riferimento alla tutela dei principi comunitari in ogni caso non consentirebbe di escludere, in linea di principio, che allo spirare del termine della concessione fosse possibile riconoscere, entro certi limiti, una tutela degli investimenti realizzati dal concessionario, a maggior ragione se effettuati in un periodo nel quale si poteva confidare sulla stabilità del titolo conferita dal diritto di insistenza o dalle proroghe dettate ope legis. Ravvisando però che tali limiti rischierebbero certamente di essere superati dall’attribuzione indiscriminata al concessionario uscente di un indennizzo corrispondente, nel caso in cui, come quello della normativa della Regione Veneto al 90% di una grandezza quale il «valore aziendale dell’impresa insistente sull’area oggetto della concessione», la cui definizione, non contenuta nella legge regionale, resterebbe del tutto incerta.
Orbene, attesa la natura dell’indagine condotta in questa sede, vista la proprietà superficiaria dei beni insistenti sulle concessioni demaniali, il tema vero è quello di ricercare quali sono questi beni e perché vadano riconosciuti quali oggetto di indennizzo tra quelli insistenti sull’area demaniale.
Per quanto affermato dal governo, la previsione del riconoscimento del valore dei beni immobili con la previsione dell’indennizzo da pagare al subentrante rappresenterebbe un’eccessiva barriera all’ingresso «a fronte dell’acquisizione, da parte dell’ente gestore, di tale valore aziendale dell’impresa, ossia di un coacervo dai confini incerti, suscettibile di comprendere, ad esempio, beni già in proprietà del concessionario uscente e beni, come quelli immobili, che in linea di principio dovrebbero risultare già automaticamente acquisti al demanio per accessione».
Secondo la Corte costituzionale, nel caso della normativa della Regione Veneto, la disposizione censurata non contemplerebbe alcuna valutazione dell’ente gestore in merito all’effettiva consistenza dell’impresa insistente sull’area demaniale: la relativa stima potrebbe dunque ricomprendere anche opere non amovibili, eventualmente costruite nella zona demaniale, in deroga all’art. 49 del Codice della navigazione. Il permanere del diritto all’utilizzazione dei beni da parte del concessionario subentrante verrebbe dunque previsto senza alcuna verifica preliminare dell’interesse pubblico all’eliminazione delle opere non amovibili, secondo quanto stabilito dalla citata disposizione del Codice della navigazione. E questo è un altro argomento di riflessione, in contrasto con le richiamate sentenze sia della Corte di giustizia europea che della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Conclusioni
Ricostruito in termini di proprietà superficiaria, ai sensi dell’art. 952 del Codice civile, il diritto soggettivo di cui godono i concessionari uscenti, e viste l’indicazione di principio dei Trattati istitutivi dell’Unione europea (che lasciano sul piano di autonomia degli Stati membri la disciplina organica dell’istituto della proprietà privata), la particolare difesa accordata sia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea che dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché le aperture dei tribunali amministrativi regionali e del governo, non si può non concludere che una disposizione nazionale che preveda il riconoscimento e la tutela degli investimenti, dei beni aziendali e del valore commerciale degli stabilimenti balneari avrebbe la piena compatibilità con il diritto comunitario e internazionale. In particolare, a sostegno di questa impostazione, interviene il concetto di proprietà privata proprio come interpretato dalla Corte di giustizia europea che, come abbiamo visto, viene posto in relazione alla funzione cui possono assolvere i beni nell’esercizio di attività economiche e dunque, in termini di lesione, in funzione del libero esercizio delle proprie attività economiche.
Il problema è più che altro quello di capire quali elementi ricomprendere nel concetto di indennizzo ai fini di una loro valutazione. A parere dello scrivente, oltre ai beni immobili, sicuramente rientrano anche i beni di facile rimozione insistenti sulla concessione, e questo nonostante le perplessità avanzate nella sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 23 ottobre 2020. A rafforzare questa impostazione sono le conclusioni, già citate, della sentenza della Corte di giustizia europea resa in data 28 gennaio 2016 nella causa C-375/14, ove il giudizio verteva proprio in tema di proprietà dei beni materiali e immateriali che costituiscono la rete di gestione e di raccolta del gioco, liberi da diritti e pretese di terzi.
L’utilizzo anche con certa cautela, sia dai tribunali che dal governo, del termine “indennizzo” e non di “valore commerciale”, è principalmente dettato dalla circostanza che con il termine indennizzo, la giurisprudenza considera solo la diminuzione patrimoniale subita dal soggetto e non anche il lucro cessante, che è altra componente separata e distinta dal danno patrimoniale complessivamente subito. L’obiettivo è dunque quello di ricercare l’equilibrio tra la diminuzione patrimoniale sofferta e la misura dell’arricchimento altrui, un concetto da costruire ad hoc e da ricondurre come auspicato entro confini certi.
A parere dello scrivente, bisogna considerare la funzione che sono preordinati a svolgere i beni. Se per esempio su un’area demaniale esiste un bene di difficile rimozione adibito a ristorante, pur senza voler guardare al lucro cessante e ai parametri “economici” di fatturato, dovrà considerarsi che oggetto della diminuzione patrimoniale è la cessione di un ristorante e non del bene immobile in cui viene esercitata l’attività di ristorazione. Dunque la strumentalità cui sono preordinati ad assolvere i beni, sia di facile che di difficile rimozione.
Note
1. v. Corte di Giustizia, 14 maggio 1974, J. Nold e altri vs Commissione, Causa 4-73, cit., 13 dicembre 1979, causa 44/79, Liselotte Hauer vs Land Rehinland-Pfalz, Causa 44/79 cit., 09 dicembre 1982, Metallurgiki Halips, Causa C-258/81, in Raccolta 1982, pg. 4261; 19 aprile 1983, Commissione vs Repubblica Federale di Germania, Causa C-113/82, in Raccolta 1983, pg. 1173; 14 gennaio 1987, Zuckerfabrik, Causa C-281/84, in Raccolta 1987, I, pg. 49; 17 ottobre 1995, Fishermen’s Organisations, Causa C-44/94, in Raccolta 1995, I, pg. 3115; 18 marzo 1980, Valsabbia e altri vs Commissione, Cause riunite 154/78, 205/78, 206/78, 226/78, 227/78, 228/78, 263/78, 264/78, 31/79, 39/79, 83/79 e 85/79, in Raccolta 1980, pg. 907; 06 dicembre 1984, Biovalac, Causa C-59/83, in Raccolta 1984, pg. 4057; 14 novembre 1984, Intermills, Causa C-323/82, in Raccolta pg. 3809; 11 luglio 1989, Schrader, Causa C-265/87, in Raccolta 1989, pg. 2237; 22 ottobre 1991, von Deetzen, Causa C-44/89, in Raccolta 1991, I, pg. 5119; 10 luglio 2003, Booker Aquaculture, Cause riunite C-20/00 e C-64/00, in Raccolta 2003, I, pg. 7411.
2. v., in particolare, sentenza Stanley International Betting e Stanleybet Malta, C-463/13, EU:C:2015:25; sentenza Duomo Gpa e a., da C 357/10 a C 359/10, EU:C:2012:283; sentenze Attanasio Group, cit., e del 13 ottobre 2011, DHL International, C‑148/10, Racc. pag. I‑9543; sentenze del 25 luglio 1991, Säger, C‑76/90, Racc. pag. I‑4221, punto 12, nonché del 4 ottobre 2011, Football Association Premier League e a., C‑403/08 e C‑429/08, Racc. pag. I‑9083; sentenze del 5 ottobre 1994, Commissione/Francia, C‑381/93, Racc. pag. I‑5145, punto 17, nonché del 13 dicembre 2007, United Pan-Europe Communications Belgium e a., C‑250/06, Racc. pag. I‑11135.
3. ordinanza del 27 maggio 2019, iscritta al n. 143 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2019.
4. come gli articoli 31, 3° co., 2312 cpv., 2324, 2456, 2° co.; 937, 3° co., 939, cpv., 940; 1150; 1185, cpv.; 1190, 1443, 1769; artt. 67 l. camb. E 59 l. ass; oltre agli artt. 2037, 3° co. e 2038, 3° co.
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